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Teatro Vascello di Roma. Il mundus delle maschere nell'acqua
Ieri sera abbiamo assistito alla prima assoluta di PAGLIACCI ALL'USCITA da Leoncavallo a Pirandello, di e con Roberto Latini e con Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati, musiche e suono Gianluca Misiti. Il suo debutto nazionaleè stato venerdi 29 settembre e vi saranno repliche dello spettacolo fino all'8 ottobre presso il Teatro Vascello di Roma.
Lo spettacolo è diviso in due parti, la prima dedicata a Pagliacci, dal libretto dell’opera di Ruggero Leoncavallo, con debutto a Milano nel 1892 mentre la seconda, indicata con la fine dal narratore del Prologo, parte riaprendo le tende rosso sangue del teatro con All’uscita, l’atto unico che Luigi Pirandello definisce “mistero profano”, scritto nel 1916 ed andato in scena a Roma per la prima volta, nel 1922.
Riassumo la trama di Pagliacci, di cui è celebre la versione tradizionale di Zeffirelli, che è andata in scena a marzo scorso al Teatro dell'Opera di Roma. Questa tragedia del teatro nel teatro, è ambientata in una Calabria poverissima, nel paesino di Montalto nel 1865, il compositore si disse ispirato ad una faccenda raccontatogli dal padre magistrato, invero un po' inventata e probabilmente in parte tratta dal da La femme de Tabarin del parnassiano Catulle Mendès, che coincide quasi del tutto con la trama di questo “delitto d'onore” che vede protagonista e vittima la moglie fedifraga del capocomico. La trama di quest'opera in un prologo e due atti è la seguente: Nedda, moglie di Canio, s'infatua del bel Silvio e promette di fuggire con lui. L'incontro è però osservato da Tonio, che aveva dichiarato il suo amore a Nedda poco prima, cacciato e preso in giro da lei, aveva promesso di vendicarsi. Tonio racconta tutto a Canio che assiste alla scena finale della promessa d'amore tra sua moglie Nedda e Silvio, lo insegue ma non riesce a prenderlo, vuole il nome dalla moglie che lo nega. La fine amara è chiara per tutti, e Roberto Latini, la chiarisce, però decostruisce completamente trama e personaggi: noi infatti approdiamo a Pagliacci dopo aver osservato l'entrata in scena di altre maschere su un palcoscenico immerso nell'acqua. Nella tradizione giudaico-cristiana, evidente simbolo di morte, e fil rouge scenico, insiema alla luna - un palloncino bianco ed iridescente - ed il sole, una grande palla al centro del palcoscenico, che da gialla diventa rossa, porpora, virando al rutilante l'intero palcoscenico.
Chi si presenta su questo spazio fluido sono delle vecchie o giovani maschere, ombre di un tempo che fu, navigano in un limbo di percezioni e ricordi lontani, quasi senza orientamento: un tempo borgesiano, dove le rovine circolari del divino non si trovano nemmeno fra i primitivi (cfr. il racconto "Le rovine circolari" da L'Aleph di Jorge Luis Borges, trad. F. Tentori Montalto, Feltrinelli, 2013). In breve, siamo in uno spazio mitologico-catartico che diviene ancora oiu' evidente con Pirandello ed il suo "mistero profano" dell'atto unico All'uscita: semisdraiati nell'acqua Roberto Latini ed Elena Bucci interpretano i due spiriti che si incontrano presso un cimitero, consustanziato da tre bianche vasche-bare d'acqua prospicienti sui due. Sopra le vasche tre maschere, due uomini ai lati, una donna al centro. Parlerà solo lei alla fine, poichè è la moglie dell'uomo nell'acqua, come l'amante dell'altro, smilzo ed interpretato da una donna appunto, Elena Bucci. Costoro parlano e litigano fra di loro, ed ad un certo punto Latini proferisce: "Una volta morto il marito, l'amante non è piu' Ombra del marito, diviene compagno ufficiale, per lei non sarà piu' come prima poichè, i ruoli ora non sono gli stessi." Ecco il dramma dei ruoli e delle parti pirandelliane: la sorte del finale, l'uccisione della donna fedifraga, è la stessa sia per Pagliacci sia per All'uscita, e si presenta come una condanna "acclamata", come se, dall'inizio, non si andasse che in quella direzione, verso la morte.
L'aldilà è anche la melagrana, corrispettivo dell'offerta di Ade a Persefone/Euridice, e condanna all'autunno ed all'inverno nell'averno, avendola accettata e mangiata: risuona l'inutile ribellione a rivestire le parti assegnate in questa vita, di frizzi e lazzi, di urla di asino, come risuonano sulla scena, di grida stridule, come quelle della donna ammazzata dal marito, quando tutti ci immergeremo in quella sostanza che tutto annulla e tutto lenisce, lavando via pene e pianto, così come canta Luciano Pavarotti (ripreso in scena) nel famoso e struggente "Vesti la giubba":
Vesti la giubba e la faccia infarina.
La gente paga e rider vuole qua.
E se Arlecchin t’invola Colombina,
Ridi Pagliaccio, e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;
In una smorfia il singhiozzo e il dolore…
Ridi Pagliaccio, sul tuo amore infranto!
Ridi del duol che t’avvelena il cor!
Eccezionale spettacolo di grande profondità intellettuale e di ancor maggior suggestione sopraffina, che tocca le corde dell'animo ed ha richiamato gli attori e Roberto Latini sul palco per ben due vlte a sipario chiuso. Applausi, veri, autentici abbracci per il teatro come mezzo per la compresione di noi in relazione al mundus, sia metaforico dentro di noi, sia concreto, fuor di noi.