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Teatro Vascello. L'insolubile ambivalenza del Sacro
Dopo un secolo di teatro borghese (e di teatro antiborghese), proporre il dramma tragico greco - quello delle Baccanti di Euripide (407-406 a.C.) - fuori dalle sedi deputate (accademie, scuole, festivals) ha un effetto dirompente. La prima assoluta di Dionysus, Il Dio nato due volte, si è tenuta il marzo scorso, con la regia di Daniele Salvo e con Manuela Kustermann nei panni di Agave, sarà in scena fino al 13 marzo al Teatro Vascello, con gli attori Melania Giglio, Daniele Salvo stesso in scena che veste i panni di Dionysus.
Di fronte ad un pubblico divenuto sofficemente televisivo o uso alle mollezze della digitalità, uno spettacolo teatrale “disumano”, scevro da ogni psicologismo e da ogni sensibilità moderna, risulta beneficamente disorientante. La regia di Dionysus si mantiene, per l’intera durata della rappresentazione, su di un registro straniante, violento, disperatamente emotivo. Daniele Salvo e i suoi energici attori si impegnano non già in recitazioni stanislavskiane, e neppure in astratte gestualità da attanti postmoderni, bensì in prestazioni fisiche e vocali estremizzate. Secondo un non ovvio paradosso la tragedia greca – radice della musica e del teatro, come affermava Nietzsche nel 1872 - diventa palestra dell’attore del futuro.
Euripide, in buona sostanza, pose i Greci di fronte al dilemma: «siete consapevoli di cosa significhi negare l’esistenza degli dei? siete disposti ad accettare che l’infelicità della condizione umana sia opera dell’uomo stesso?». Nella prospettiva di un teatro antico del futuro - ai giorni nostri - la tragedia di Euripide serve a provocare nel pubblico la catarsi post-moderna. Daniele Salvo non pensa più allo sbandamento mentale del “teatro nel teatro” e neppure al coinvolgimento nell'happening psicanalitico, ma provoca la partecipazione disagevole ad un evento luttuoso, il risveglio convalescente dal sonno dogmatico.
Ha scritto Salvo nelle sue “Note di regia”: «Penso ad una recitazione non stilistica, senza elementi esibiti o innaturali. Questo lavoro sul suono non è fine a stesso […]. Penso ad una recitazione senza tracce di elementi borghesi: le parole di Euripide sono radicate nel corpo e celate nella “macchina attoriale” più antica. Gli stati emotivi sono soprattutto stati vocali e fisici». Vuol dire che il compito dell’attore è di tipo non-cognitivo, non-razionale, nel senso di «post-razionale». In Dionysus non si ritrovano avventurose strategie attualizzanti, proprie di regie teatrali e operistiche modaiole. Il riferimento al contemporaneo è contenuto in un fondale che equipara Tebe ad una Metropoli, nell’effetto straniante di poche attrezzature di palcoscenico. I costumi sono arcaici e fashion. Il nudo e l’eros pacatamente allusi. La scenografia è intrisa di luci e di suoni. Pochi ma vibranti gli oggetti. Il testo di Euripide parla da solo ed è scandito, vocalizzato, agito gestualmente. Le semplificazioni e gli sfoltimenti dell’originale greco risultano opportuni: accompagnano la rappresentazione nella durata e nel ritmo delle due ore. Non alterano l’essenza del progetto di Euripide: precipitare l’uomo nel contrasto viso a viso con il dio.
Il sacro dei Greci ha poco da spartire con quello cristiano e con quello borghese: il dio non è buono e la tragedia non è meramente intersoggettiva. Gli dei entrano nel mondo degli uomini per travolgerne l’esile equilibrio e lo fanno con finezza disumana. Gli dei sono vendicativi e malvagi. Euripide ci mostra che chi vuole scacciare gli dei dal mondo lo fa a sue spese, rinunciando a qualcosa che comunque è parte di lui stesso.
Tra gli dei e coloro che li seguono – tra Dioniso e le Baccanti – si interpone invano Pénteo, il miscredente. Chi svela l’arcano della sacralità è la figura tragica di Agave (una formidabile Manuela Kustermann). La donna diventa consapevole che l’ebbrezza dionisiaca l’ha portata a compiere azioni folli e inaccettabili (uccidere il suo stesso figlio: Pénteo, farne a pezzi il cadavere). E comprende che è stato proprio Dioniso, il dio amato, a travolgerla nell’orgia, a farle perdere il senno e ad indurla al delitto. Lo ha fatto per punire con sadica astuzia la città di Tebe che lo aveva ignorato, negando i suoi poteri divini.
Salvo sembra condividere la prospettiva euripidea, ma alla maniera di Giorgio Colli (La nascita della filosofia, 1975): il sacro e gli dei recarono agli uomini la consapevolezza del «nascosto». L’esperienza del divino è la scoperta della sua ambivalenza, della sua insolubile enigmaticità. Il divino evidenzia infatti i limiti dell’umano, mostra che ciò che l’uomo può apprendere e utilizzare è una parte minima della realtà. Una realtà che è totalmente disumana, irrazionalizzabile, eternamente inconoscibile. Il culto di Dioniso – e il teatro che ne è l’espressione, come scrisse Jane Ellen Harrison (Themis, 1912) - possono rappresentare la porta aperta verso un «divino senza dei», una «sacralità» del futuro. Siamo nell’epoca della tecnicizzazione della scienza, nell’epoca del tramonto degli dei e delle religioni. Si prospetta così una sacralità post-religiosa che non è conquista della razionalità, ma slancio vitale. Ma vi è anche un’altra possibile lezione di Euripide: la visuale dell’estremo disincanto. Il forsennato tìaso delle seminude Baccanti evoca, infatti, l’ultima delle illusioni umane: quella dell’irrazionalità.