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Teatro Vascello. L'Oreste nichilista di Bellocchio
L’antico e il moderno si sono inverati sulla scena del Teatro Vascello di Roma durante lo spettacolo “Oreste” rappresentato dal 22 al 24 marzo 2013, ideato da Marco Bellocchio e affidato alla regia di Filippo Gili. Il regista si confronta con un’opera di Euripide, il tragediografo più discusso dell’Antica Grecia, che per primo osò dare forma più umana ai miti del suo tempo, ridimensionando il ruolo della divinità nelle azioni umane, a differenza dei suoi predecessori Eschilo e Sofocle.
Una scena essenziale con due letti posti in evidenza accoglie i deliranti Oreste ed Elettra, figli di Agamennone e Clitemnestra, dopo aver compiuto il più aberrante degli atti che si possa immaginare, il matricidio. Movimenti veloci e bruschi, grida concitate simboleggiano icasticamente lo stato d’animo dei due personaggi. Il giovane, in particolare, interpretato da Pier Giorgio Bellocchio, risulta in preda ad un’alterazione mentale in cui i momenti di incoscienza, dovuti agli attacchi di follia, si alternano a quelli non meno dolorosi di coscienza. Precisa è, infatti, la caratterizzazione del personaggio in questo senso, in consonanza proprio con il testo di Euripide: è tormentato da allucinazioni che lo terrorizzano e che lo inducono a balzare via dal letto; seguono poi momenti di spossatezza e di profonda confusione. Negli intervalli di tregua Oreste mostra i segni tipici di una malattia: rifiuta cibo ed acqua; la sua chioma è ispida e sporca. Tali dettagli realistici concorrono a dare rappresentazione della natura anche fisica del male che si abbatte inesorabile su Oreste. Il regista, infatti, ha così dato espressione alle devastanti conseguenze del matricidio, il cui ricordo incombente non è rimosso nemmeno dalla follia. Elettra, invece, è colta nel suo prodigarsi teneramente verso il fratello, con l’intento di tranquillizzarlo e affievolirne la paura.
Intanto sulla scena riecheggiano, come da lontano, delle voci inquietanti, quelle delle Erinni, demoni vendicatori di Clitemnestra, che nella tradizione antica perseguitano l’animo del giovane, provocandogli tormentate allucinazioni. Sulla scena, tuttavia, si attenua il loro ruolo, in quanto il dolore del personaggio sembra tutto interiore a tal punto da trascendere la persecuzione da parte delle divinità. Il personaggio, infatti, si confronta soprattutto con se stesso e con la consapevolezza della sua responsabilità.
Ecco che due figure femminili fanno il loro ingresso sul palco, attorniando Oreste e commentando brevemente quello che è accaduto. È evidente che tali personaggi sono un residuo dell’antico coro della tragedia greca, a cui era demandata la funzione di commentare gli avvenimenti rappresentati, dando espressione al pensiero della collettività sul dramma dell’individuo. Si nota, pertanto, in questo caso come il regista abbia voluto mantenere una simbolica continuità con l’autore greco, pur ridimensionando il ruolo e la portata del coro tragico.
Dopo una fase pienamente concitata, Oreste ed Elettra si spogliano degli abiti dei personaggi dell’antica Grecia, per indossare quelli più moderni di Ale e Giulia, proiettando, quindi, lo spettatore in una dimensione contemporanea ma pur sempre analoga a quella euripidea. Anche qui incombe un matricidio e i due ragazzi sono i protagonisti di un film dello stesso Bellocchio “I pugni in tasca”. Risulta così evidente la complessa operazione che è stata messa in atto: la trama euripidea si riverbera nella problematica società degli anni Sessanta, dialogando con essa, creando un continuo andirivieni tra presente e passato e un oscillante sdoppiamento dei protagonisti sulla scena.
Al tormento di Oreste si sostituisce, nel nostro hic et nunc, l’euforia di Ale, che uccide sua madre subdolamente e non in maniera diretta come il suo corrispettivo greco, senza un preciso movente e non in obbedienza ad una giustizia quasi morale. Nel mythos euripideo il tragico riesce, pertanto, ancora a presupporre la figura di un eroe, che agisce mosso da necessità e trascendenza; nel dramma moderno, invece, Ale è privo di ogni aura eroica, imprigionato ineluttabilmente e catastroficamente nella spirale di panico ed angoscia, che segue l’uccisione della madre. Due diverse essenze tragiche si contaminano tra loro, in un labirintico gioco di riflessi deformati, in cui il dramma moderno conduce l’archetipo antico ad esiti nichilistici. Nessuna catarsi, quindi, sembra possibile, solo un profondo senso di sconcerto.