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Venezia 70 Leone d'Oro a Sacro GRA. Raccordo di vite invisibili
Il Grande Raccordo Anulare è la più lunga autostrada urbana d'Italia. Circonda Roma decretando chi sta dentro e chi invece ne vive ai margini. Collega vite, speranze, miserie, e torna sempre su se stessa, come un gigantesco drago d'asfalto che si inghiotte la coda. Vincitore del Leone d'Oro alla 70° edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e nelle sale italiane dal 19 settembre, Sacro GRA, di Gianfranco Rosi, è molto di più di un documentario sul Grande Raccordo Anulare e sulla città che esso contiene. È la visione lucida e sofferta di un sostrato umano collettivo, da parte di un regista demiurgo abituato a scandagliare le periferie del mondo in cerca di verità, ad aprirne le crepe alla ricerca di storie reali e magiche insieme, capaci di raccontare il loro mondo e quello che li circonda meglio di qualunque altra cosa.
Due anni di lavoro e di ricerche, decine di ore di riprese, vite attraversate e osservate con rispetto, scavate fin nelle pieghe più intime, senza mai violare la giusta distanza e sempre con un'impalpabile senso di fiducia, quasi di laica devozione: Sacro GRA è, innanzi tutto, un collettore di storie, vere naturalmente, eppure così cinematografiche da apparire attinte direttamente dai grandi classici della settima arte. C'è l'anziano nobile piemontese, colto e decaduto, che si intrattiene con la figlia laureanda in forbite e scanzonate disquisizioni sul tutto nel nulla e viceversa, riempiendo lo spazio bianco di un monolocale in un moderno condominio popolare ai bordi del Raccordo. Nella loro storia frammentata c'è il respiro sincopato di un passato che guarda il presente col flemmatico distacco del perdente che si fa da parte per lasciar passare il nuovo che avanza, ma che in realtà si scansa per non venirne travolto. Nei loro sguardi – quello di lui, sempre alla finestra, che filtra attraverso i suoi occhi le immagini del mondo che invece la figlia fruisce solo attraverso lo schermo di un PC – si riflette la malinconia di chi, dai margini della ricchezza, scorge chi ne abita il centro, invidiandolo dietro ogni parola di biasimo. C'è il botanico, che protegge le sue palme dall'aggressione di larve divoratrici e dal temibile Punteruolo rosso, spietato insetto che si muove in branco e devasta tutto ciò che incontra sulla sua strada, proprio come l'essere umano. Come uno sciamano, vaga per la sua giungla armato di pozioni chimiche e di sonde sonore, incidendo su un registratore ogni mutamento interno delle piante, compreso il decesso. La sua è una battaglia solitaria e metaforica, per proteggere delle creature indifese, quasi sacre, dal progressivo incedere del disfacimento morale di una città che si espande e divora tutto, compresa la sua stessa innocenza: “perché la palma ha la forma dell'anima dell'uomo”, registra ad alta voce il botanico. C'è poi un principe moderno che fa ginnastica col sigaro in bocca, mentre osserva dall'alto dei bastioni del suo castello kitsch il degrado della periferia che lo assedia. Bed & Breakfast, sala convegni, teatro per bambini e set per cinema, TV e persino fotoromanzi, il gusto retrò di questo luogo ai limiti del metafisico si mescola con la più materiale e materialistica delle arti, quella di arrangiarsi. I fasti del passato si specchiano sui busti di marmo degli imperatori disseminati negli ampi salotti, mentre un fotografo un po' imbranato mette in posa le sue comparse da rivista con involontaria comicità. Il sacro si mescola al profano, la Storia alla sua caricatura: anche questa è Roma, anche questa è l'Italia.
Fra le corsie del GRA sfreccia poi un'autoambulanza del primo soccorso in missioni notturne sospese fra la vita e la morte. Al suo interno un barelliere in tuta fosforescente raccoglie corpi feriti come un angelo custode, consolandoli lungo il tragitto con calore non richiesto eppure necessario, come se a nulla servisse curare le ferite esteriori senza aver sanato prima quelle interiori. Salva le vite il barelliere, ma non può nulla contro il lento incedere della malattia senile dell'anziana madre, che sembra non capire più la sua voce ma che non vuole mai farlo andar via.
Infine c'è l'anziano ed esperto anguillaro che pesca all'imbrunire sotto i ponti del Tevere. Il suo mestiere testimonia una tradizione che va scomparendo e che nessuno ormai si prende la bega di imparare o studiare, come lamenta lui stesso commentando un articolo alla moglie paziente mentre le fatiche della giornata calano sulla loro casa galleggiante. In loro c'è il senso del tempo che passa e che non passa mai, mentre l'età avanza e la stanchezza aumenta, ma senza rassegnazione: la consapevolezza che li pervade è, al contrario, quella di una vita piena di senso, quel senso pescato ogni giorno con le proprie mani e che solo loro conoscono.
In mezzo, frammenti di vite riempiono il resto del mosaico filmico: devoti in preghiera osservano un'eclissi al Divino Amore attribuendola alla Madonna; due attempate prostitute assiepate in un camper ingannano l'attesa e l'amarezza intonando canti stonati e senza parole; due ragazze ancheggiano in abiti succinti sul bancone di un bar fuori mano, senza vergogna perché non c'è peccato. Tutto questo e molto altro è Sacro GRA, che nasce dal progetto dell'urbanista Nicolò Bassetti e che ha come guida spirituale Le città invisibili di Italo Calvino. La circolarità è leitmotiv del film, come dimostrano le panoramiche puntellate al centro di cortili periferici, o le passeggiate ginniche del principe sul tetto del suo castello. Una circolarità tematica in cui è lo sguardo cinematografico di Rosi addensa il significato, attingendo quello promanato dalla verità delle storie. In questo senso, tuttavia, stonano alcuni passaggi, come le telefonate poetiche del botanico che sanno di costruito, o quelle didascaliche del principe con i suoi clienti. Ma è il prezzo che Rosi paga per l'assoluta (e condivisibile) rinuncia di una qualunque sovrastruttura narrativa. Un prezzo irrisorio al cospetto della generosità di un'opera che sta ridisegnando la geografia del cinema italiano.