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Venezia 76. Ad Astra, lo spazio dentro di sé
Presentato in Concorso al Festival di Venezia 76°, Ad Astra di James Gray è un film essenziale, introspettivo, riflessivo, intellettuale e con un unico protagonista: Brad Pitt. Film di fantascienza come pochi ultimamente, è ispirato al genio di Kubrick e di Tarkovskij (2001 Odissea nello spazio e Solaris, rispettivamente 1968 e 1972), perchè è un film sulla vera fantascienza, quella che, nei romanzi di Philip Dick ad esempio, indaga i rapporti umani. La musica illustre di Max Richter come colonna sonora è la ciliegina sulla torta.
Il motto che fa da Leitmotiv al film, ovvero Per aspera ad astra, “attraverso le asperità si giunge alle stelle", non di sola radice ciceroniana, è sia metaforico sia letterale: effettivamente il protagonista Roy McBride (Brad Pitt), astronauta come il padre, raggiungerà una delle "stelle", la più lontana del sistema solare, Nettuno, l'ottavo pianeta che ha come simbolo il tridente del Dio del mare e quel viaggio è nel futuro ma anche all'indietro nel tempo, per cercare un padre che riteneva morto, anche ai suoi affetti. È come se quel sottotitolo che mise Gustav Holst alla sua composizione dedicata a Nettuno, The Mystic, il mistico, la condividesse anche la pellicola di James Gray, la capacità di andare oltre le stelle navigando proprio negli astri, inoltrandosi in quel territorio remoto in cui l'uomo anela di recuperare altre intelligenze, altre vite.
Come gli eroi del passato, Roy McBride, dovrà compiere una serie di imprese per salire agli astri, raggiungere il padre Clifford che, secondo ciò che gli dicono, è la causa di una serie di catastrofi sulla terra provenienti dalla stazione spaziale che orbita intorno a Nettuno e manovrate dal padre. Roy, di cui chiaramente la Spacecom non si fida, è continuamente sottoposto ad un controllo dello stato psicologico, come una specie di cavia adoperata solo ai fini del recupero della posizione del padre nello spazio per poterlo arrestare nella sua azione distruttiva nei confronti del pianeta Terra. Brad Pitt è magnifico nella parte: il profilo dell'attore infatti è tutto versato all'introversione, al seguire i suoi pensieri, è quasi del tutto costantemente solo oppure non può fidarsi di nessuno, tranne che del Colonnello Pruitt (Donald Sutherland) che lo tratta come un figlio; della direttrice della base lunare Helen Lantos (Ruth Negga), che gli rivela altri segreti della Spacecom; la moglie Eve (Liv Tyler), che vedremo soprattutto attraverso i videomessaggi che legge Roy. Il padre di Roy, Clifford, interpretato da Tommy Lee Jones invecchiato ad arte, lo vedremo solo nella seconda parte del film ed aprirà la riflessione di Roy sugli affetti in modo catartico.
Il film è pieno di metafore, è indirizzato a menti pronte ad elaborare con efficacia la prolissità di scene che mostrano lo spazio come facevano Kubrik o Tarkovskij, per rivelare parti della propria interiorità. L'outer space, lo spazio fuori è qui in realtà lo spazio dentro, l'inner space, e quel pianeta blu come il mare non fa che ricordarci questo, che i nostri ancoraggi, familiari oppure no, sono anche quelli che non ci fanno navigare, fuori o dentro gli astri.