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Verona Teatro Nuovo. L'urlo munchiano di Hedda Gabler
Il secondo appuntamento della rassegna Grande Teatro, al Teatro Nuovo di Verona è con Hedda Gabler di Henrik Ibsen, protagonisti Manuela Mandracchia e Luciano Roman, regia di Antonio Calenda, rappresentato dal 26 novembre al primo dicembre 2013.
Dicono che il teatro sia finito, dicono che non ci siano più i bravi attori, di un tempo, che il teatro è nella fase di un declino irreversibile…..Eppure, dopo avere visto Manuela Mandracchia spadroneggiare nel ruolo di Hedda, ho dovuto ricredermi.
Dramma in quattro atti, ridotti a due, scritto tra l’estate e l’autunno del 1890 dal norvegese Henrik Ibsen e rappresentato per la prima volta al Residenztheater di Monaco, “Hedda Gabler” è incentrato su una delle figure femminili più problematiche e seduttive di Ibsen, un personaggio che continua ad essere uno dei ruoli preferiti dalle attrici di tutto il mondo. In Italia, la prima ad interpretarla fu la grande Eleonora Duse.
Ebbene Manuela Mandracchia, con la sua presenza scenica e con la sua capacità di saper modulare i vari registri espressivi, è riuscita a dare credibilità e spessore a questa incredibile figura di donna, che incarna una specie di femminismo ante litteram, anche se la problematica di cui si fa interprete porta ad una soluzione (se si può dire così) imprevista: né quella sociale, né quella politica saranno ottenute, piuttosto una esistenziale ma distruttiva.
Hedda incarna una donna che cerca l’autonomia e fugge i condizionamenti sociali, rifiutandoli e ridicolizzandoli, evidenziando continuamente un bisogno esistenziale di rompere quella gabbia psicologica in cui sembra essere immersa.
Di grande impatto emotivo il suo “urlo” sordo di “munchiana” memoria.
Al centro della vita di Hedda ci sono quattro uomini, a cominciare dal padre, il generale Gabler, ormai defunto, ma la cui presenza continua ad ossessionare la giovane donna, tanto da conservare il cognome di lui. C’è poi il marito, Tesman, scialbo intellettuale piccolo-borghese che aspira ad una cattedra universitaria e che Hedda ha sposato per pura convenienza economica, senza dimostrare il minimo gesto d’amore o di comprensione nei suoi confronti. Anzi, si vede chiaramente quanto egli rappresenti un peso di cui sarebbe felicissima di liberarsi.
Il terzo, preceduto dalla visita e dal sofferto racconto di una storia d’amore vissuta dalla signora Elvsted, anche lei malmaritata, compare all’improvviso: si tratta del giovane scrittore nevrotico Lovborg, immerso nella sua drammatica irrequietezza esistenziale. Si scoprirà che Hedda aveva già vissuto una storia d’amore con lui, una storia fatta di abbandono e di delusione. Infine il giudice Brack, una specie di tentatore deus ex machina, il cui ricatto finale porterà alla morte di Hedda, non prima però che lei abbia favorito il suicidio del suo antico amante Lovborg.
Una storia di amore e morte, potremmo dire. Con tuti gli ingredienti dell’atmosfera nordica di cui Ibsen è uno dei maggiori rappresentanti. Una storia in cui prevale l’impossibilità di trovare una soluzione concreta ed accettabile al grande dramma scaturito da una irrisolta angoscia esistenziale.
Alla fine i vincitori saranno proprio i due personaggi più scialbi, Tesman e la signora Elvested, che sembrano abbozzare la nascita di un loro rapporto sentimentale, quasi un meccanismo di difesa dal grande dramma che li ha solo sfiorati.
Grande e incisiva Manuela Mandracchia nel ruolo di Hedda, accettabile quello degli altri interpreti, a cominciare da Luciano Roman nel ruolo del giudice Brack, di Massimo Nicolini in quello di Lovborg; a seguire Jacopo Venturiero, nel ruolo di Lovborg e di Federica Rosellini in quello della signora Elvsted. Pienamente attuale e condivisibile la regia di Antonio Calenda che ha proposto uno spettacolo di grande intensità emotiva. Grande e interminabile, quasi liberatorio, l’applauso del pubblico che ha gremito la sala in tutti gli spettacoli.