Villa Giulia. Čajkovskji e Beethoven in binomio incantato

Articolo di: 
Teo Orlando
Aprea

Al Ninfeo di Villa Giulia il 30 luglio 2014, nell’ambito della manifestazione Percorsi Musicali, Bruno Aprea ha diretto en plein air l’Orchestra Roma Sinfonietta per due classici assoluti della musica dell’Ottocento, il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra di Piotr Ilic Čajkovskji e la Settima sinfonia in la maggiore op. 92 di Ludwig van Beethoven. Al pianoforte si è esibito il giovane pianista spagnolo Josu De Solaun, vincitore del Concorso Internazionale José Iturbi nel 2006 e della European Union Piano Competition nel 2009, nonché brillante solista più volte in tournée tra Europa, America ed Estremo Oriente.

 Bruno Aprea, dal canto suo, è uno dei direttori d’orchestra più stimati ed accreditati nel panorama internazionale, con una ricca attività divisa tra repertorio sinfonico ed operistico: di recente è stato direttore artistico e musicale della Palm Beach Opera in Florida e ha tenuto, alla Escuela Superior de Canto de Madrid, una masterclass sulla Traviata, dedicata a giovani direttori d’orchestra, mentre in autunno terrà una lezione, nell’ambito del festival di Uto Ughi organizzato nella Basilica di Santa Sabina a Roma, sulla Seconda Sinfonia di Johannes Brahms. Tra le molteplici onorificenze che ha ricevuto, si può citare il Koussevitsky Prize al Festival di Tanglewood nel 1977, con una giuria composta, tra gli altri, da Leonard Bernstein e Seiji Ozawa: Aprea è stato il secondo italiano a ricevere tale ambito riconoscimento dopo Claudio Abbado, che l’aveva ottenuto nel 1959.

Il primo brano, il Concerto n. 1 per pianoforte ed orchestra in si bemolle minore op. 23 di Pëtr Il'ič Čajkovskij, è tra i più celebri esempi di virtuosismo pianistico, caratterizzato da un vibrante carattere romantico e da una suadente e trascinante cantabilità che lo ha reso estremamente popolare. Čajkovskji lo compose tra il novembre 1874 ed il febbraio 1875, con il proposito di farlo eseguire a Nikolaj Rubinštejn, direttore del Conservatorio di Mosca e pianista di grande talento; ma in realtà ebbe la sua première a Boston il 25 ottobre del 1875 con Hans von Bülow al piano. Il concerto si può inserire in una sorta di serie ideale di concerti per pianoforte e orchestra dal forte e appassionato empito sentimentale, tra cui possiamo annoverare il Concerto per pianoforte e orchestra in la minore op. 54 di Robert Schumann, il Concerto n. 1 in mi minore per pianoforte e orchestra op. 11 di Fryderyk Chopin, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in mi bemolle maggiore S. 124 di Franz Liszt, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 op. 83 in si bemolle maggiore di Johannes Brahms, il Concerto per pianoforte e orchestra in la minore op. 16 di Edvard Grieg e il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in do minore op. 18 di Sergej Vasil'evič Rachmaninov.

La sua celebrità e la cantabilità dei suoi motivi principali hanno fatto sì che il primo movimento venisse utilizzato in diverse pellicole cinematografiche: dal biopic su Čajkovskij L'altra faccia dell'amore (The music lovers) di Ken Russell alla commedia Il senso della vita dei Monty Python, per finire con il thriller Una farfalla con le ali insanguinate di Duccio Tessari e Misery non deve morire di Rob Reiner. Il secondo movimento invece ricorre più volte nel corso del film In memoria di me di Saverio Costanzo.

L’impianto del concerto è tradizionale, giacché segue la classica tripartizione in tre movimenti. Il primo di essi (Allegro non troppo e molto maestoso – Allegro con spirito) comincia con quattro accordi in Mi bemolle minore estremamente enfatici, a cui fa subito dopo riscontro un tema lirico e appassionato in re bemolle maggiore, che non apparirà più nel resto del movimento. Il tema principale deriva poi dal folklore ucraino, esplicitamente messo a contrasto con un tema romantico. Segue poi un tema in la bemolle maggiore in cui l’orchestra prende il sopravvento, e che si ripete alla fine dell'esposizione, dopo un climax tumultuoso in do minore. Il movimento si conclude con una coda trionfante e di intonazione ottimistica, con una serie di accordi in Mi bemolle maggiore e con un rullo di tamburi.

Nel secondo movimento (Andantino semplice - Prestissimo - Tempo I) la musica si addolcisce e le pulsioni ritmiche del primo movimento lasciano il posto ad arabeschi e motivi folklorici della tradizione russa, con un incipit in forma di Lied eseguito dal flauto. Nel terzo movimento (Allegro con fuoco) si riprende la ritmica del primo movimento, con potenti accordi di danza, finché il concerto non si conclude sempre nella tonalità di Mi bemolle maggiore.

Josu De Solaun ha fatto del suo meglio per rendere i passaggi più virtuosistici del concerto, senza eccedere in enfasi, benché certe volte sia sembrato un po’ “freddo” quando il pubblico si sarebbe aspettato una maggiore consonanza con lo spirito della composizione čajkovskiana. Del resto, si tratta di un concerto in cui un certo ammiccamento folklorico si coniuga perfettamente con un forte romanticismo nazionale: in questo, come ha rilevato Theodor W. Adorno, Čajkovskij si apparenta perfettamente ad Antonín Dvořák, nel senso che in entrambi viene eretto a qualcosa di universale ciò che in realtà è limitato e non suscettibile di ulteriori sviluppi: si pensi anche alle somiglianze espressive che caratterizzano i due musicisti, che risaltano ad esempio nell'Ouverture-fantasia da Romeo e Giulietta di Čajkovskij e nel Quarto tempo della Sinfonia n. 9 "Dal nuovo mondo" di Dvořák. Per il filosofo tedesco, in questa musica “ciò che non è ‘tema’ nel senso di una specifica melodia caratterizzata in senso nazionale, decade a puro momento di transizione oppure, nei peggiori prodotti di questa tendenza, a riempitivo reboante e chiassoso”. Il giudizio adorniano a noi pare alquanto ingeneroso (come lo era, pur nella sua acutezza, quello sul jazz), ma va comunque rilevato che solo un’esecuzione perfetta e impeccabile (come ad esempio quella di Martha Argerich) può permetterci di ritrovare nella partitura del compositore russo quell’unità che si produce nella varietà che è la vera idea portante della grande musica sinfonica.

Bisogna comunque dire che la sapiente direzione di Aprea è riuscita a rendere giustizia a tale idea, laddove De Solaun ha evitato certi atteggiamenti istrionici e certe esaltazioni pseudo-virtuosistiche, forse inconsciamente proprio per non incorrere in critiche come quella di Adorno. E prima di congedarsi, ha deciso di donare al pubblico una piccola gemma a mo’ di bis: la quarta parte della suite per pianoforte Goyescas, Op. 11, di Enrique Granados, intitolata “La maja y el ruiseñor” ("La fanciulla e l’usignolo"), una sorta di notturno che però si conclude con trilli e arpeggio che simulano il canto degli uccelli. Il famoso standard "Bésame Mucho" fu composto dalla cantautrice messicana Consuelo Velázquez nel 1940 sulla base di questo pezzo di Granados.

La seconda celeberrima composizione in programma era la Settima sinfonia in la maggiore op. 92 di Ludwig van Beethoven. Rituale ma mai inutile è ricordare il giudizio di Richard Wagner, che la definì “apoteosi della danza”, e quello di Johann Wolfgang von Goethe, che, decenni prima di Friedrich Nietzsche, scorse nella sinfonia di Beethoven la perfetta fusione dell’elemento apollineo e di quello dionisiaco, definendola un’opera “greca” nel senso a lui più caro dell’espressione. 

Composta tra il 1811 e il 1812, festeggiò la première all’Università di Vienna nel 1813; l’occasione era connessa con le guerre napoleoniche, perché si trattava di di un concerto organizzato al fine di approvvigionare l’esercito austriaco, comandato da Carl Philipp von Wrede, che aveva appena combattuto la battaglia di Hanau contro Napoleone, riportando una non decisiva sconfitta. Della Settima sinfonia va innanzitutto sottolineato che la sua genesi pone una cesura rispetto alle precedenti, che vennero composte con estrema continuità tra il 1801 e il 1808; invece, la Settima è stata intervallata dalla creazione del Concerto per pianoforte n. 5 “Imperatore” (Op. 73; 1809), dalle musiche per l’Egmont di Goethe Op. 84, e dal Quartetto in fa minore Op. 95 (1810). Non a caso i musicologi definiscono ‘eroico’ questo periodo, a causa dell’ingente mole di lavoro realizzata da Beethoven.

Aprea conduce l’orchestra con piglio deciso e sicuro, assecondando con la sua composta e olimpica gestualità le variazioni strumentali che caratterizzano la sinfonia beethoveniana fin dal primo movimento (Poco sostenuto. Vivace). Il tema iniziale (che presenta sorprendenti analogie con il secondo tema del quarto movimento della Sinfonia in re maggiore KV 97 di Mozart, che però Beethoven non poteva conoscere, non essendo ancora stata pubblicata) è prima accennato dagli oboi e poi ripreso e completato dagli altri strumenti a fiato. La cellula ritmica fondamentale viene poi a introdurre le prime quattro battute del Vivace, che si snoda attraverso un’orgiastica varietà di effetti timbrici, di vertiginosi cambiamenti di registro e di continue tensioni e distensioni armoniche. Hector Berlioz, del resto, pensava di udire una “Ronde des paysans” nel primo tempo. Giudizio confermato da uno dei primi biografi di Beethoven, lo scrittore baltico Wilhelm von Lenz, per il quale la Settima era quasi una seconda sinfonia pastorale, completa di nozze campestri e di canti contadini.

Del resto la Settima si pone in pieno contrasto con la Quinta: propone quattro tempi invece di tre (gli ultimi due di quest’ultima sono uniti) e ritorna ad un modello impiegato nella Quarta sia per gli elementi dell’orchestra, sia per l’introduzione molto lenta. Il tema principale, infatti, impiega qualche tempo prima di emergere (passando attraverso tutti gli strumenti) ed assumere una ritmica “incalzante” (e appare davvero sorprendente che di recente uno zazzeruto pseudocompositore italiano, che spaccia per musica classica contemporanea banali e brevi melodie pop accompagnate, durante i concerti, da frasi degne dei cartigli dei Baci Perugina, abbia potuto accusare Beethoven di mancare di senso del ritmo!).

Segue il secondo movimento, il celeberrimo Allegretto: Aprea lo fa eseguire in modo usuale, senza trattarlo quasi come se fosse un tempo lento (che in questa sinfonia, come nella “sorella” VIII, è assente). Aperto e chiuso da un accordo di la minore, l’Allegretto si fonda, nel suo mesto e insieme quasi festoso incalzare, su un solo modulo ritmico (scandito dai fiati), che accompagna quasi come un discorso continuo la melodia orchestrale, affidata ai violini (modulo che verrà ripreso nel quartetto schubertiano Der Tod und das Mädchen), finché in conclusione tutti gli strumenti riprendono i due motivi. Il movimento presenta, ulteriormente, due temi in contrasto tra loro: uno di carattere ‘lugubre’ (di ritmo ‘marcato’) ed uno ‘cantabile’ (gestito dai clarinetti).

Secondo Adorno non è sufficiente sostenere che anche questo movimento mantiene il carattere di danza. Per il grande musicologo francofortese, in esso opera una feconda dialettica tra fissità, oggettività e dinamica soggettiva. Il tema è dapprima fisso, quasi come una passacaglia, ma è in sé stesso estremamente soggettivo: il soggetto e l’oggetto vengono mediati attraverso il destino, per cui il segreto soggettivo trapassa impercettibilmente nella fatalità oggettiva. L’apparente fissità che si può constatare all’ascolto non deriva dal tema stesso, ma da un paradosso: siamo in presenza di variazioni che non variano, nella misura in cui riprendono compendiosamente tutte le novità musicali introdotte da Haydn e da Mozart.

Il terzo movimento (Presto), in forma di Scherzo, inizia con un vero inno alla gioia di vivere, aprendosi su ritmiche veloci e trionfanti, riprendendo il tema dell’introduzione e alternando vari motivi ritmi e melodici, con le sezioni strumentali che quasi gareggiano nell’inseguire i vorticosi cambiamenti ritmici. Si inserisce anche il motivo di un canto popolare religioso austriaco, che funge da ritornello nella parte conclusiva (Presto meno assai: attraverso ciò è ovvio il rimando al coro dell’Inno alla gioia).

Il quarto e ultimo movimento (Allegro con brio) vede Aprea dirigere l’orchestra con compostezza, senza dilatare i tempi, ma neppure rallentarli e cedere a una certa concitazione. La musica diventa quasi vorticosa, ispirata a una sorta di furore bacchico, con un vigoroso tema in sedicesimi che si alterna con un motivo trionfale introdotto dai fiati e ripreso dagli archi. È probabile, tra l’altro, che Beethoven abbia attinto qui a varie fonti, dalla canzone folk irlandese Nora Creina” alla marcia trionfale di François Joseph Gossec nell'opera Le Triomphe de la République.

Nella perorazione conclusiva assistiamo quasi a un’estasi ritmica che ha fatto giustamente parlare di trascendenza, nel senso di un’apertura totale alla vita e al mondo, in cui lo spirito subisce, per usare un'espressione del musicologo Ernest Newman, una divina e mistica intossicazione, grazie “all’irruzione di un potente spirito bacchico”.

Pubblicato in: 
GN36 Anno VI Numero doppio 31 luglio - 7 agosto 2014
Scheda
Titolo completo: 

Percorsi Musicali a Villa Giulia - Roma

Orchestra Roma Sinfonietta
Direttore Bruno Aprea
30 luglio 2014  - ore 21

Pëtr Il'ič Čajkovskij (Kamsko-Votkinsk 1840 – San Pietroburgo 1893)
Concerto n. 1 per pianoforte ed orchestra in si bemolle minore, op. 23

1. Allegro non troppo e molto maestoso – Allegro con spirito
2. Andantino semplice - Prestissimo - Tempo
3. Allegro con fuoco

Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770  - Vienna, 1827)
Sinfonia n. 7 in la maggiore, op. 92

1. Poco sostenuto. Vivace
2. Allegretto
3. Scherzo. Presto
4. Allegro con brio

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