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Bidoli. La metafisica del corpo
La silloge poetica di Livia Bidoli appare in un momento storico che ben si potrebbe definire “un’epoca della povertà”, per riprendere un’espressione di Friedrich Hölderlin, in cui gli dèi sono fuggiti e i poeti sono costretti a scrivere i loro versi in un mondo dominato dalla “ragione strumentale” di cui parlavano Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo.
La poesia che l’autrice ci presenta in questa raccolta è essenzialmente lirica, e come ogni lirica mira a comunicare l’universale attraverso un’individualità assoluta: è possibile comprendere il messaggio della poesia soltanto quando nell’apparente solitudine del dettato si coglie la voce dell’umanità.
Una regola ermeneutica preziosa è quella per cui spesso nessuno sa comprendere un autore meglio di quanto lui stesso possa offrirsi nel processo dell’autocomprensione. Così nella postfazione l’autrice spiega la sostanza della sua poetica: “L’ispirazione primaria, l’humus che feconda le idee non sono mai astrazioni, semmai sensazioni, emozioni, sentimenti che si radicano impervi tra i rovi dell’esperienza. Questi cespugli spinosi raccolgono frutti dal sapore selvaggio, indecifrabile, la loro stessa essenza li costringe a nascondersi e a dissimularsi camuffati dai veli di parole a volte enigmatiche, a volte curiose e ardite”. In queste parole l’autrice sembra intrattenere un rapporto tormentato e problematico con sé stessa, come peraltro traspare da tutte le poesie; in particolare, usando un plurale che definirei piuttosto pluralis modestiae che majestatis, la poetessa parla di sé definendosi “noi sempiterni viaggiatori dell’io” (La sera avanza).
La prima persona plurale chiama in causa anche il lettore: si è in qualche modo lettori e autori insieme, quasi che il lettore debba sentirsi in simbiosi con il poeta. Ce lo ricorda Charles Baudelaire ne Les Fleurs du mal (testo che ha profondamente influenzato l’autrice), quando si rivolge all’ipotetico fruitore del suo canzoniere chiamandolo “Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!” L’Io non è qualcosa di stabile e permanente, di duraturo: viaggia perché intraprende un cammino, un percorso, una ricerca sofferta. Come ci ricorda Remo Bodei, “nel viaggio della vita, l’io può giungere intatto sino al termine del suo cammino, ma la sua integrità è una conquista non garantita” (Destini personali, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 62). La poesia di Bidoli è implicitamente una poesia filosofica, in ciò che in essa vi è di più profondo e meno trasparente: “è la dimensione oscura delle creazioni poetiche, e non ciò che in esse viene pensato, a costringere alla filosofia” (Adorno). Assistiamo a una sorta di duplice dialogo: quello tra poesia pensante e pensiero poetante; il dialogo è duplice non solo perché è sempre tra due poli, ma perché oscilla tra di essi con un doppio movimento, dalla poesia al pensiero e dal pensiero alla poesia.
Nella poesia di Livia Bidoli è immanente una dimensione spirituale. Ma si tratta di una spiritualità di tipo materiale, come potremmo dire con un’espressione ossimorica. È una trascendenza che indica qualcosa oltre il sensibile. Già lo stesso titolo è rivelativo: Matrice e realtà allude alla realtà virtuale, come nel film di fantascienza Matrix, che però non è mai separata dalla realtà sensibile e corporea. Noi viviamo su questi due piani che sono solo apparentemente scissi e divaricati. Lo stesso esergo posto all’inizio della raccolta tradisce quest’intenzione: “In primo luogo dai sensi viene ogni cosa degna di fede, ogni buona coscienza, ogni aspetto della verità” (Friedrich Nietzsche). Il filosofo e poeta tedesco invitava ad osare di oltrepassare i limiti della condizione umana, ma sempre nell’ambito del terrestre: Al di là del bene e del male, come manifestamente indica il titolo dell’opera da cui è tratta la citazione.
L’autrice crede davvero nella sostanza intima corporeità: siamo fatti di carne e sangue e non siamo meri simulacri come accade in Deleuze, Baudrillard o Philip K. Dick. Come Nietzsche aveva ben compreso, il corpo è più intimo a me di quanto io lo sia a me stesso, mentre la coscienza è soltanto una superficie di un io “diventato favola, finzione, gioco di parole”. Oltre che al film Matrix, qua si potrebbe pensare anche al celebre esperimento mentale dei cervelli in una vasca di Hilary Putnam. Uno scienziato pazzo, dopo aver espiantato i nostri cervelli dal cranio, ha collegato le sinapsi cerebrali ad un computer che controlla tutte le nostre volizioni e i nostri atti. Ma ciò in realtà non è possibile: filosoficamente si può dimostrare che noi siamo necessariamente l’unione di un corpo e di una mente reali.
Peraltro, se la mente rimandi a qualcosa di trascendente rimane impregiudicato e questo anche nella poesia di Livia Bidoli. Sarà il lettore a deciderlo, cooperando nell’interrogazione della poesia, nell’atto della lettura, come dicono Umberto Eco (Lector in fabula), Roland Barthes, Hans-Robert Jauss e Harold Bloom: la lettura è un atto di cooperazione, in cui il lettore assegna lui stesso i significati alla poesia.
Molte delle poesie sono intessute dei simboli dell’oltrepassare. Uno di questi è la metafora del parapetto, che ricorre due volte. In Argini:
Per morire è sufficiente un respiro mancante
E far saltare gli argini del parapetto
Per non superarli mai.
Una metafora simile ricorre nella filosofa Hannah Arendt, quando parla del pensare (o del poetare) senza ringhiera, senza protezione o parapetto che impedisca di varcare i limiti. Intervallata da La verità sull’amore (con un chiaro richiamo ad Auden), troviamo Le speranze, definite con un altro ossimoro “speranze maledette”: solo pochissimi barlumi di un sentiero che può essere percorso cercando qualcosa. "Non superate il parapetto del disonore: non supplicate chi non vi vuole, condannate da lui, l’infame."
La metafora del parapetto rimanda anche implicitamente al poeta e cantautore inglese Peter Hammill, che in Primo on the Parapet, dedicata a Primo Levi suicida, aveva ammonito a non dimenticare le tragedie della storia. Qui invece si ammonisce a non superare il parapetto oltre cui non c’è nessuna speranza. La speranza non viene mai abbandonata, nonostante una certa allure di maledettismo, che traspare da altre poesie, intessute di simboli arditi e metafore scintillanti che fanno pensare all’apparenza di oscurità e a lande di tenebra, la darkness di cui parla Thomas S. Eliot nei Four Quartets che hanno influenzato l’autrice (I said to my soul, be still, and let the dark come upon you/Which shall be the darkness of God, East Coker). "Tenebre, innominate, innumerevoli Ascendono variopinte come nugoli di sabbia Appese ai drappi di velluto ceruleo." (La vertigo incolume). "Migrerai verso lidi avvolti da tenebre lacunose per sovvenire gli sguardi che aduli." (La voce celata)
La dialettica tra l’espoir e le désespoir che si trova in Baudelaire viene articolata in modo meno pessimista rispetto al poeta francese. Nell’ultimo degli Spleen di Baudelaire leggiamo: "l'Espoir, Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique, Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir." Invece scrive la nostra poetessa: "Umile oceano, rivestito di creste, che lavando l’oblìo, permettono alla speranza di crescere." (Le otri caduche).
Alla poesia di Bidoli non è estranea neppure una dimensione di sottile ricerca intertestuale. Un esempio lo si può trovare in una delle ultime poesie: Sempre caro mi fu. Già il titolo allude esplicitamente a Leopardi, e nel testo si trovano altri rimandi lessicali al poeta recanatese. Ci troviamo di fronte alla tipica strategia del “rovesciamento parodistico”, come ci hanno insegnato Guido Almansi e Guido Fink. Non viene però stravolto in modo ironico il dettato del grande poeta, perché il rovesciamento parodistico qui è da intendersi in un senso non demistificante: la parodia serve a rivisitare in modo attualizzante e pregnante un grande poeta, operando su disiecta membra leopardiane. Ad esempio il sostantivo “eremo” rimanda all’ermo colle ma anche all’eremo inteso come rifugio solitario. Si può ricordare di nuovo Eliot, che è solo con la sua anima negli spazi interstellari (O dark dark dark. They all go into the dark,/The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant), o Rainer Maria Rilke che nelle Elegie duinesi è solo di fronte alle schiere degli angeli.In questa solitudine (ricordiamo anche le soledades che sono pure nostalgie di Antonio Machado) l’anima è così sottile che non è possibile neppure afferrarne la consistenza perché impalpabile.
Sembra che non ci resti che sprofondare nell’abisso, come vediamo in Una discesa nel vortice: viene espressa l’angoscia di chi si trova solo proiettato nell’abisso, angoscia che attende pur sempre, però, una possibile consolazione. Qui si trova con ogni evidenza l’influsso di uno degli autori più cari alla nostra autrice, ossia Edgar Allan Poe, e in particolare A descent into the Maelstrom; a questo racconto Poe premette, come exergue, una citazione, probabilmente apocrifa, del filosofo neoplatonico del Seicento Joseph Glanvill: "The ways of God in Nature, as in Providence, are not as our ways; nor are the models that we frame in any way commensurate to the vastness, profundity, and unsearchableness of His works which have a depth in them greater than the well of Democritus." Nelle poesie di Livia Bidoli si può forse trovare la stessa vibrazione del sovrannaturale calato nella natura che traspare da queste parole.
Discesa nel vortice
Un oceano di colori gremito di sussulti
come un albero steso fra le foglie
ormai divelte dal sussurro dell’inverno:
voltati a guardare quel sospiro,
nato nel momento cieco dell’abisso
e fissalo fra le tue vertebre
per imprimerlo e consolarlo
in una volta trascesa nell’oblio del mare.
La raccoltà è scandita da sottotitoli: Matrice e realtà; A te che risplendi; Animale uomo; Il corpo dell’anima; La malinconia del mare. Miraggi (ultimo sottotitolo, ma non per importanza). L’espressione “Animale uomo” è particolarmente significativa. I già citati Nietzsche e Leopardi pensavano che l’uomo non differisse in modo essenziale dall’animale, benché in realtà nessun animale si comporti come l’uomo verso i suoi simili. Noi siamo portati a separare animale e uomo pensando che stiano su piani diversi, operando con una sorta di antropologia positiva, e che l’uomo sia al centro del creato. Occorre forse orientarsi verso una sorta di “antropologia negativa” e pensare che gli animali e gli uomini non siano così distanti. Questo è il messaggio contenuto in Animale uomo e che si ritrova nelle seguenti righe leopardiane:
“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi” (Zibaldone, 4175).
Peraltro, nell’espressione animale uomo ritroviamo epitomizzati i tre motivi fondamentali della poesia di Livia Bidoli: 1) la poetica della sensualità e della corporeità; 2) l’afflato metafisico; 3) il rapporto tra l’interiorità e l’esteriorità.