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Jeanne D'Arc. Papaveri rossi per il patibolo
L’oratorio in forma semiscenica richiesto da Ida Rubinstein ad Arthur Honegger è del 1835 mentre il Prologo è stato aggiunto solo nel 1844. Paul Claudel, autore del libretto, dopo un’iniziale riluttanza, fece un sogno ad occhi aperti che lo indirizzò immediatamente verso la composizione della prima parte che, anche nella riduzione scenica contiene dei tratti visionari, in linea con la storia di Jeanne.
L’allestimento del regista Keith Warner (a Londra con Pappano per dirigere l’intero Ring di Wagner proprio ultimamente), fa interrogare su una nuova visione della “fede”, indipendente dalle religioni, pienamente in linea con un’innocenza spirituale che non cerca e non impone dogmi. Alla ricerca della stesse visioni di Jeanne, prima di salire sul patibolo.
La scena è imponente e la cascata di boccioli rossi di papavero a metà dell’oratorio fa sussultare. Si ammucchiano lentamente ai lati, soffici come a carezzare l’intero involucro trasparente che contiene la gigantesca sedia sopra la quale si trova la santa, in agitata corresponsione con le parole del recitativo.
L’attrice Romane Bohringer interpreta Jeanne su un piccolo palco di fronte al pubblico, sul quale la raggiungono l’unico suo supporto, Frère Dominique, ovvero Tchèky Karyo e l’intera messe di giudici dal nome e dall’aspetto inconfondibilmente legato all’emisfero animale (uno per tutti Porcus, che si incarica di emettere la sentenza finale).
L’annichilimento, pronunciato dalle note di un dramma inquietante e sinistro con stridori dodecafonici ed espressionisti ci fa piombare d’improvviso nelle battaglie del Re di Francia, fra le carte, i ragli d’asino e le accuse orripilanti che preludono ai motivici passaggi del lupo, candida figura di spettro.
Eppure, il pubblico continua ad essere esaltato, nonostante si tratti di un oratorio e di difficile comprensione stilistica. Tutte le avanguardie, compreso Strawinski trasferitosi in Francia nel 1910, sono qui rappresentate con una coloritura quasi militante. Il papavero citato prima, simbolo araldico della giustizia (qui mancante se non postuma) e delle vittime della prima e della seconda guerra mondiale, è doppiamente significativo.
La chiara ascendenza di Honegger ed il tappeto di false accuse mosse contro la santa evidenziano un atto d’accusa proprio al genocidio coevo. Lo stesso lupo oltre che fantasmatico è una figura del male che, come ogni psicopompo, preannuncia la fine. E le armonie dei cori di Voci Bianche, tipicamente britteniane, accanto ai canti popolari non sollevano affatto.
Il preludio di una decisione irrevocabile continua ad esaltarsi per tutta la durata dell’oratorio diretto da un Pappano in piena forma: potente ed intessuta di variazioni appena sussurrate dall’inquietudine sommessa e delirante della martire. L’epilogo, straziante e trionfale, non fa che riverberare sullo sfondo le ultime parole di Jeanne: "Je viens", da un Dio non ancora disceso sulla terra, soltanto evocato esergo.