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Palazzo Merulana. La silente magia di Antonio Donghi
A Roma Palazzo Merulana ospiterà fino al 26 maggio la mostra “Antonio Donghi. La magia del silenzio”, una retrospettiva a cura di Fabio Benzi, che nel catalogo propone la sua interpretazione innovativa sul percorso artistico del pittore.
La mostra è stata prodotta da CoopCulture che la propone a Palazzo Merulana, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, nel museo che gestisce e valorizza a Roma, un luogo in cui per vocazione “l’arte non solo si ammira ma si produce”. Il percorso espositivo riunisce trentaquattro opere grazie al sostegno del Main Sponsor UniCredit, che ha anche contribuito con sedici importanti prestiti delle opere di Antonio Donghi (1897-1963), provenienti dalla straordinaria collezione esposta a Palazzo De Carolis, sede di rappresentanza del gruppo bancario a Roma. Hanno contribuito anche la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, la Banca d’Italia.
Inoltre la Fondazione Elena e Claudio Cerasi possiede ed espone in permanenza proprio a Palazzo Merulana tre significative opere: Le lavandaie (1922-23), Gita in barca (1934) e Piccoli saltimbanchi (1938).
Il percorso di visita è stato concepito come il prosieguo della mostra permanente, per cui dal primo piano si sale al secondo dove, in uno spazio un po’ angusto, sono esposte in ordine cronologico le opere di Donghi. Il pittore, nato a Roma nel 1897, frequentò iI Regio Istituto di Belle Arti e nel 1916 fu arruolato. La sua attività artistica cominciò alla fine della Prima Guerra Mondiale. In esposizione ci sono alcune prime opere proprio del primo dopoguerra; sono tre oli su tela: La basilica di Massenzio (1920), Il Minatore (1921-22 circa) e Fontana dei cavalli marini (1921-22 circa). I quadri sono dipinti nel solco della tradizione postimpressionista e per i paesaggi sono vicini ai paesaggisti del gruppo dei “XXV della Campagna romana”. Queste opere mostrano già una notevole sensibilità cromatica nella resa dei paesaggi, una caratteristica che rimarrà anche dopo il drastico cambiamento di stile.
Secondo Fabio Benzi, il curatore, il cambiamento è da attribuire alla visione delle opere di Ubaldo Oppi (1889-1942), che vide esposte alla Galleria Bragaglia a Roma, che frequentava assiduamente. Oppi è considerato uno dei maggiori esponenti del Realismo magico, dalla definizione data da Franz Roh in Nach-Expressionismus. Magischer Realismus (Leipzig 1925). Oppi nelle sue opere recupera elementi della pittura quattrocentesca, ma la sua tavolozza cromatica è fredda, non naturalistica e le figure umane, pur richiamandosi a quei modelli, sono immerse in un'atmosfera sospesa e i loro visi malinconici hanno uno sguardo enigmatico.
Anche in Donghi c’è un richiamo alla pittura del passato, un personale “Ritorno all’ordine”, bench per motivi biografici non aveva militato nelle avanguardie, era nella sensibilità diffusa del tempo in cui iniziò il suo percorso artistico. La tavolozza cromatica è calda e se certe geometrie possono ricordare Giotto come nell’olio su tela Via del Lavatore (1924), nei ritratti l’orizzonte si allarga ai grandi ritrattisti del ‘500 e del'600, come nel Ritratto di madre e figlia (1942) che evoca Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni di Agnolo Bronzino (1503-1572) o nell’Annunciata (1939) con reminiscenze raffaellesche. Lo sguardo pur diretto dei diversi soggetti non è gelido ma interrogativo, si ha l’impressione che scruti lo spettatore.
Il Ritratto equestre del duce (1937), secondo il parere di Benzi, è probabile che lo abbia eseguito per ottenere l’agognato posto fisso, cosa che avverrà nel 1939 quando entrò al Regio Istituto Centrale del Restauro, come docente di tecniche pittoriche. Nel dipinto colpisce il cavallo, che ricorda per bellezza e eleganza quelli della sala di Palazzo Tè a Mantova, capolavoro per l’architettura e gli affreschi, che lo decorano, di Giulio Romano (1499-1546). Le nature morte sono un soggetto che riporta alla tradizione ma che è stato fonte di ispirazione anche per Donghi come dimostrano i due oli in mostra: Fiori (1935) e Fruttiera su un tavolo (1935).
L'artista sembra aver avuto una particolare inclinazione per i soggetti quotidiani che ritrae con morbida delicatezza come: Le lavandaie (1922-23), La pollarola (1925) e Gita in barca (1934). La maggior parte dei dipinti in esposizione hanno come tema i paesaggi urbani e naturali, romani, laziali, toscani, verso cui l’artista manifesta una forte inclinazione per composizione e sensibilità cromatica. Una visione personalissima anche se possono un po' ricordare quelli di Henri Rousseau (1844-1910), in quanto sono immersi in un'atmosfera irreale e sembrano suggerire un desiderio di astrarsi dai tempi difficili, quelli del regime fascista, della guerra, per rifugiarsi in un’altra dimensione pacifica e tranquilla, un atteggiamento che si è protratto anche nel dopoguerra.
Sono un altro indizio di evasione l’amore per il cinema, quello muto in bianco e nero, e gli spettacoli circensi, un soggetto di cui in mostra ci sono: Il giocoliere (1936), Piccoli saltimbanchi (1938) e L’ammaestratrice di cani (1946). Una personalità schiva e misteriosa è quella che si manifesta nei dipinti di Donghi che il visitatore trova in esposizione: ci si interroga, ma si è anche affascinati da questo artista che sembra vivere della sua arte fuori dal mondo in una dimensione astratta di atarassia.