Wakefield al Teatro Argentina. Il grande salto intraletterario

Articolo di: 
Giuseppe Talarico
Giuseppe Manfridi

Assistendo alla rappresentazione dello spettacolo di Giuseppe Manfridi, intitolato Wakefield come il racconto di Hawthorne del 1837, e andato in scena al Teatro Argentina di Roma il 3 febbraio 2010 in unica serata, è riaffiorata nella mia mente una profonda riflessione sul valore della scrittura letteraria, che si trova in un grande libro di Luigi Malerba intitolato Il Fuoco Greco.

Per l’autore di questo libro, un romanzo storico, senza la scrittura letteraria e la vicende umana, non potrebbe essere raccontato, e quindi non esisterebbe. Con il suo lungo monologo Giuseppe Manfridi nel suo spettacolo, bello, profondo e innovativo, è riuscito a comporre un vasto universo narrativo, in cui colpisce la rifrazione ed il gioco di specchi fra testi letterari diversi e vicende storiche degne di essere ricordate. Proprio la cifra stilistica dello spettacolo, in cui coesistono citazioni di testi e rinvii a vicende storiche rilevanti, offre la possibilità di comprendere che la letteratura è un specchio in cui si riflette l’intera condizione umana. All’inizio, l’io narrante si chiede quale importanza abbiano il diavolo e le forze demoniache nella vita creativa degli scrittori e degli artisti.

Per Manfridi, il demone si mescola alla nostra vita e spiega il motivo per il quale gli scrittori hanno saputo indagare il lato oscuro della misera condizione umana. Nel primo libro dell’Eneide di Virgilio, Enea avvolto da un alone magico, dopo avere abbandonato Troia in fiamme, approda sulle coste Libiche, a Cartagine. Grazie alla potenza visionaria delle grande poesia di Virgilio, in questo momento della narrazione, possiamo comprendere il percorso umano che sta prendendo corpo nell'esistenza di Enea, sospeso tra il suo passato, Troia in fiamme, ed il suo futuro, l’eroe destinato a fondare la città eterna per volere degli dei. Proprio la narrazione della vicenda di Enea, nel poema di Virgilio, dimostra che la scrittura letteraria conferisce un senso ed un significato intellegibile alle storie degli uomini.

Nel suo spettacolo, dimostrando che in letteratura ogni opera rinvia ad un’altra secondo la celebre definizione di Borges, Manfridi racconta la storia di un uomo, tratta dal celebre racconto di Edgar Allan Poe intitolato L’uomo della folla (1840). Un signore si trova in un bar londinese: seduto osserva attraverso il vetro del locale la folla e le strade brulicanti di gente. Ad un tratto, mentre la sua mente segue alcune riflessioni astratte, viene attratto da un uomo che cammina in modo curioso, vestito in malo modo e con un visibile disagio disegnato sulla espressione del suo volto. L’uomo abbandona il bar e decide di seguire lo sventurato. Muovendosi dietro di lui, scopre, in preda allo sconcerto, che l’uomo ama stare in mezzo alla folla, e che quando casualmente si trova in un luogo desolato, viene sopraffatto dall'angoscia e dalla disperazione. E’ solo, ma paradossalmente ama attraversare le strade brulicanti di gente. In questo racconto, viene rivelata una deviazione esistenziale, grazie alla quale un personaggio scopre una forma particolare della sofferenza umana, incarnata dall’uomo della folla, anonimo e disperato.

La seconda deviazione, che ci consente di capire come il destino umano è governato dal caso imprevedibile che può modificare la condizione umana di ogni individuo, per Manfridi è stata raffigurata da Melville nel racconto Bartleby lo scrivano (Bartleby, the Scrivener: a Story of Wall Street, 1853) dal 5 al 7 febbraio 2010 letto da Daniel Pennac sempre al Teatro Argentina. Bartleby lavora come copista nello studio di un avvocato. Un giorno, senza alcuna valida ragione e motivazione, alla richiesta dell’avvocato di adempiere ai suoi compiti, Bartleby oppone un rifiuto netto, espresso con la celebre formula verbale: preferirei di no. Da questo momento, dopo che l’avvocato lo ha licenziato e fatto rinchiudere in carcere per vagabondaggio, Bartleby si rifugia e precipita nel suo profondo e insondabile silenzio, ripetendo la stessa frase, fino a quando la morte lo coglie per inedia. L’avvocato tenterà invano di capire le ragioni di un comportamento assurdo ed incomprensibile.

Come Bartleby, anche il personaggio della novella di Hawthorne intitolata Wakelfield (1837) decide improvvisamente di dare una svolta radicale alla sua normale esistenza borghese, ponendosi ai margini della vita sociale, sempre per la deviazione che modifica la condizione umana. Wakelfied abita con la moglie in un rispettabile palazzo borghese in un quartiere di Londra. Un giorno, in preda ad uno smarrimento esistenziale che lo sospinge verso l’angoscia, decide di abbandonare la casa e  si rifugia in un palazzo che si trova di fronte alla sua precedente abitazione. In questo luogo, dove rimarrà per oltre venti anni, osserva come il tempo modifica la sua vita e quella della moglie. Cambia identità, nasconde il suo viso, osserva da una posizione privilegiata quanto succede nella vita degli altri.

Dopo questo lungo periodo, la cui durata è di vent’anni, interamente consacrati al voyeurismo esistenziale, rientra nella sua casa, dove ritorna a vivere con la moglie, oramai vecchia, come se nulla fosse accaduto. Ma perché Wakelfied, questo personaggio indimenticabile, fugge dalla normale esistenza borghese per rifugiarsi in un luogo diverso, da cui osservare la vita degli altri? In realtà questo personaggio, mentre si allontana dalla sua casa, non sa, alla stessa maniera di Enea nei primi capitoli dell’Eneide, chi egli sia. Ritroverà se stesso, dopo un periodo di grande smarrimento, quando, grazie alla prolungata solitudine, la sua personalità conoscerà una inaspettata evoluzione umana ed esistenziale. Ma questo personaggio che osserva la vita degli altri per coglierne il senso recondito e sfuggente, non ha un’inclinazione intellettuale simile a quella di un qualsiasi scrittore?

Per Manfridi è sorprendente constatare le coincidenze e le simmetrie che esistono tra i testi letterari e il periodo storico in cui sono stati concepiti. Manfridi, a questo proposito, evoca la cabala e la forza simbolica degli eventi umani. La vicenda dell’atleta americano Beamon, chiarisce bene il senso letterario della deviazione esistenziale, che modifica la condizione umana e rivela la forza ingovernabile del caso, come dimostrano i testi letterari richiamati nello spettacolo. Beamon è un giovane studente universitario americano. Grazie ai suoi meriti sportivi, è riuscito ad ottenere una borsa di studio. Dopo aver opposto il suo irremovibile rifiuto alla presenza dei mormoni in una riunione di atletica, perde la borsa di studio. Per questo si trova in grande difficoltà, accresciute dalla circostanza che viene abbandonato dalla moglie. Superando molti ostacoli, riesce a raggiungere città del Messico, città nella quale si trova da solo.

Nella notte che precede la gara di atletica, durante la quale stabilirà il record del salto in lungo con ben 55 cm in più dal record precedente, si aggira disorientato e angosciato ai margini dello stadio olimpico nella città messicana. Il giorno successivo, sorretto dalla sua forza d’animo, compie l’impresa sportiva che lo fa assurgere nell’empireo dei grandi sportivi di ogni tempo. Questo uomo, che avrebbe dovuto avere una vita diversa, per la improvvisa deviazione che interviene nella sua esistenza, si trasforma in un eroe sportivo, grazie al gesto atletico che compie, nobile e smisurato, la cui durata temporale è di sette secondi. Questa vicenda sportiva spiega in che maniera deve essere considerata la concezione secondo la quale la letteratura è uno specchio della vita umana.

Come i personaggi dei testi letterari commentati ed interpretati da Manfridi, alla stesso modo Beamon incarna la deviazione esistenziale capace di mutare il destino umano di ogni individuo. Altri personaggi hanno conosciuto la deviazione esistenziale, secondo il racconto di Manfridi. Amleto, che in base all'interpretazione di uno scrittore francese, improvvisamente si trasforma in scrittore, per rappresentare un dramma che racconti il regicidio, di cui fu vittima il padre. Un personaggio di un racconto di I. B. Singer, il professore Kagan, che invece di scrivere un saggio letterario, commissionatogli da una rivista, si abbandona nel suo scritto a singolari e sorprendenti divagazioni sull’ippica e sui cavalli. Il grande scrittore Robert Walser ha raccontato, in un suo libro, che una sera si trovava in un locale da solo. Osservando una signora che era seduta da sola, Walser si accorse che la signora desiderava conoscerlo e per questo gli aveva indirizzato segnali inequivocabili. Lo scrittore per questo prende un giornale e finge di leggere un testo. Poi, ecco la deviazione esistenziale, improvvisamente sprofonda nella lettura e si dimentica della signora, la quale nel frattempo è scomparsa dalla sua vita.

In questo spettacolo di Manfridi, in cui riecheggiano temi che rinviano a opere di alcuni autori grazie al gioco mirabile delle rifrazioni, si rimane meravigliati e ammirati per il grande talento affabulatorio del suo autore, un intellettuale capace di invenzioni sceniche sorprendenti e moderne. Dallo spettacolo è stato tratto un libro, da poco pubblicato. Questo lungo monologo di Manfrdi conferma quanto sia valida l’idea teorizzata da Lukacs, il personaggio cercatore, a proposito del personaggio letterario che ricerca il senso della vicenda rappresentata da uno scrittore. Ogni narrazione letteraria implica il commento, l’interpretazione, la meditazione, l’ironia, l’interrogazione sui grandi enigmi della vita. Si spera che lo spettacolo venga replicato nei principali teatri Italiani. Una serata letteraria indimenticabile.

Pubblicato in: 
GN7 Anno II 3 febbraio 2010
Scheda
Titolo completo: 

Giuseppe Manfridi
Wakefield
Teatro Argentina
Spettacolo del 3 febbraio 2010

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