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L'Opérette. Un vortice di dionisiaca immaginazione
L’Opérette, une acte de l’opérette imaginaire di Valère Novarina, è una singolare pièce teatrale andata in scena al Théâtre National de Toulouse (acronimo TNT, quasi un'allusione al nome chimico abbreviato del tritolo, il trinitrotoluene), dal 25 al 27 febbraio 2009.
La Compagnia Air de Lune, diretta dai registi Marie Ballet e Jean Bellorini, dichiara fin dall'inizio una delle sue caratteristiche: celebrare il matrimonio di musica e teatro. Entrano così in scena otto attori che sperimentano uno per volta diversi moduli linguistici ed espressivi.
Usando il linguaggio come se fosse una terra vergine, le parole acquisiscono il senso che si vuole dare loro secondo il colore, il suono, la materia che evocano ogni volta che vengono proferite. Gli attori si comportano come se fossero marionette, privi di carne e di sentimenti, e ognuno di loro porta un nome astratto, quasi in una sfida antinominalista, in cui della monumentale opera di Valère Novarina, l’Operétte, viene selezionato il terzo atto, insieme con il prologo.
I nomi proteiformi e improbabili assunti dagli attori sembrano etichette tratte da un catalogo della patafisica, la “scienza delle soluzioni immaginarie” di Alfred Jarry e di Raymond Queneau (trasposta in musica dai Soft Machine di Robert Wyatt e dai Gong di Daevid Allen): “la Donna pantagonica”, “l’Attore che fugge l’Altro”, “la Dama autocefala” o “il Romanziere infinito”.
Così i personaggi della drammaturga svizzera sembrano quasi sfidare uno dei detti di Karl Kraus, secondo il quale “se io non posso andare più lontano, è perché ho urtato il muro del linguaggio. Allora mi ritiro, con la testa sanguinante. E vorrei comunque andare più lontano”. Qui il linguaggio sembra quasi imbizzarrirsi, e viene ritmato da interludii in cui la musica di Mozart (Ave Verum), Schubert (Ave Maria) e Bach (Passione secondo San Giovanni) si alterna alle canzonette di Jean Bellorini che celebrano la magia delle parole e della scrittura.
L’operetta qui va intesa come una specie di ossatura, di forma scheletrica e crudele del teatro che scarnifica quasi l’essere umano. Come dice la stessa autrice, “si riconosceranno le ossa umane dal fatto che sorreggevano gli occhi”. Il “grasso del teatro” viene rimosso ed eroso: rimangono solo i resti duri e gli arresti ritmici, gli incroci di forze e l’assenza dei sentimenti. Si può quasi dire che la rappresentazione teatrale si tramuta in un’acquaforte, come quelle di Albrecht Dürer, in una forma acuminata e in rilievo: al posto dell’umanità di carne e di sangue subentrano il tratto, il gesto, lo sguardo tranchant, lo slancio subitaneo e quasi futurista.
Il ritmo delle movenze degli attori sulla scena ricorda un ragtime: si muovono con un tempo a strappi e formato da brandelli irrelati, che ricorda, oltre al jazz, certe composizioni di Claude Debussy ed Eric Satie. La loro corporeità si struttura quindi in frammenti piuttosto che in un una totalità solida e ben definita.
Alla fine dello spettacolo ci si sente coinvolti nel vortice dionisiaco di festa e di letizia che la compagnia di attori, intersecando il materiale fonetico con quello musicale, riesce a creare quasi con un tocco magico e rutilante. Ed allora potremmo dire con Wittgenstein: "Dove il nostro linguaggio ci fa supporre l’esistenza di un corpo, e non c’è alcun corpo, là, vorremmo dire, c’è uno spirito". (Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, I, § 36).