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Eden. Il fallimento delle utopie, secondo Ron Howard
Sembrano passati secoli, da quando Ron Howard era un po' per tutti Richie Cunningham. Bambino prodigio molto amato sul piccolo schermo, interprete poi nella post-adolescenza di personaggi ancora più popolari come per l'appunto quello di Happy Days, apprezzato nel mentre come attore cinematografico in American Graffiti di George Lucas, il Nostro ha avuto davanti alla macchina da presa una carriera a dir poco lusinghiera, ma è nel passarvi dietro che è avvenuta, un po' per volta, la consacrazione.
Sì, perché da regista Ron Howard si è prima segnalato per un cinema di intrattenimento affrontato con la giusta spigliatezza e variando di continuo l'approccio ai generi (Splash - Una sirena a Manhattan, Cocoon - L'energia dell'universo, Willow), per approdare poi negli anni a un crescendo di intensità che gli ha consentito, senza mai abbandonare il solco delle tradizioni hollywoodiane e al netto di qualche “scivolone” o tentennamento, di aggiungere progressivamente spessore alla narrazione. Titoli come Frost/Nixon-Il duello, Rush e Heart of the Sea-Le origini di Moby Dick sono, in tal senso, emblematici. Ciononostante possiamo candidamente ammettere di esserci arrivati impreparati, a una parabola cinematografica della caratura di Eden, che rischia seriamente di passare agli annali come l'apice della sua filmografia.
Si può affermare senza remore che il Vaso di Pandora sia stato bruscamente scoperchiato. E da lì sono confluiti in Eden gli umori attuali di un autore approdato quasi silenziosamente a una visione dell'esistenza alquanto cupa, ferina, beffarda, laddove uno script del genere non può affatto condurre i personaggi verso la redenzione, bensì verso una cinica, selvaggia lotta per la sopravvivenza. Come ribadito anche attraverso le immagini sui titoli di coda, tale lungometraggio si basa su una storia vera, anzi, sulle contrastanti versioni che diedero di tale episodio i sopravvissuti.
In Eden vediamo otto persone trasferirsi a scaglioni su un'isola remota, per la precisione l'inospitale Floreana nelle selvagge per quanto naturalisticamente affascinanti Galapagos. Ironicamente, paradossalmente, per quanto gli sviluppi del racconto siano destinati a porre in una luce sinistra gli istinti più bassi dell'essere umano, già la prima coppia vi si era recata dal Vecchio Continente non soltanto per sottrarsi agli agi della civiltà, ma anche e soprattutto per sfuggire negli anni '30 alla morsa decisamente più soffocante del nascente regime nazionalsocialista: “guru” di questo primigenio insediamento è infatti il filosofo tedesco Dr. Friedrich Ritter (Jude Law), approdato sull'isola dopo un lungo viaggio con la discepola e amante Dore Strauch (Vanessa Kirby). Derisi dai tabloid della Germania hitleriana, che continuano a descriverli come gli Adamo ed Eva delle Galapagos, sembrano in realtà dediti alla ricerca di una vita migliore, in quanto maggiormente vicina allo stato di natura, e a nuovi parametri sociali d'impronta chiaramente utopica, che Ritter intende analizzare e descrivere nei libri ai quali sta lavorando.
La loro esperienza ha però ispirato Heinz Wittmer (Daniel Brühl), vedovo e veterano della Grande Guerra, a fuggire a sua volta dalla civiltà per cominciare una nuova vita assieme alla giovane ed energica nuova moglie Margret (Sidney Sweeney) e al ragazzo avuto dal primo matrimonio, il debole e malaticcio Harry. Questo nuovo nucleo famigliare viene però accolto dai coniugi Ritter con evidente, ostentata freddezza. Gli ultimi a sbarcare lì saranno Eloise Wagner De Bousquet (Ana de Armas), presunta ereditiera audace e dai trascorsi movimentati che si fa chiamare “La Baronessa”, assieme a un piccolo seguito composto da individui che svolgono un po' il ruolo di amanti e un po' quello di servitori, tutta gente con il cui aiuto l'altezzosa signora sogna di costruire un resort di lusso per miliardari. Ma il fatto che la Baronessa vorrebbe l’isola tutta per sé, abbinato alla sua letale invadenza e ai modi incredibilmente arroganti, immorali, spietati, è la miccia da cui scaturisce, ben presto, un autentico gioco al massacro...
Il caso di cronaca nera che prenderà forma nei mesi a seguire, con alcuni dei protagonisti destinati a fare una gran brutta fine, è stato poi raccontato in vario modo, dai testimoni oculari (nonché sospettati) della scabrosa vicenda, sia alle autorità giudiziarie dell'Ecuador (cui appartengono le Galapagos) che all'opinione pubblica mondiale. Aprendo una finestra a latere della narrazione cinematografica vera e propria, ci piace semmai annotare una pittoresca leggenda locale, la quale racconta che le tartarughe giganti delle Galapagos siano in grado di capire le intenzioni di chi visita l'arcipelago. Se si arriva sull'arcipelago armati di cattive intenzioni, allora si sarà condannati per sempre e colpiti duramente da tale maledizione. Più o meno quello che accade ai protagonisti di un così feroce apologo cinematografico...
Quello di Ron Howard non è però né un giallo, né un reportage naturalistico, né tanto meno un trattato sul folklore locale. Lo si percepisce più che altro come un crudo pamphlet filosofico, che, oscillando nei toni tra il lucido pessimismo di Stanley Kubrick e l'amaro, ghignante disincanto di Sam Peckinpah, s'appresta a comporre un livido, tetro epitaffio per tutte le ideologie e le visioni utopiche della Storia contemporanea. I personaggi stessi sono i portavoce di tale crollo. A partire naturalmente dal Dr. Ritter, che neanche a farlo apposta si chiama Friedrich proprio come Nietzsche, di cui si limita però a scimmiottare il pensiero rendendo così il filosofo tedesco, il suo predecessore Schopenhauer e altri mentori di tal fatta vuoti simulacri del proprio naufragio esistenziale.
Un naufragio finanche peggiore del confino volontario sull'isola. In un'opera cinematografica che abbonda di citazioni, soprattutto letterarie, l'inconcludente nichilismo del Dottore finisce poi per scontrarsi col non meno fallimentare (e ancor più esecrabile) edonismo della Baronessa, sul cui volgare egotismo pesa in modo analogo la cattiva comprensione del romanzo da lei preso a modello, Il ritratto di Dorian Gray del grande Oscar Wilde. Ecco, in tempi di avvilente “politically correct” la magnetica presenza scenica dell'attrice cubana Ana de Armas, villain dalle subdole tendenze manipolatrici, è veicolo (assieme volendo a certi tratti caratteriali della bionda Dore Strauch) di un ritratto della crudeltà femminile poco conforme alle mode attuali. Mentre il terzo e in linea di massima più “pulito” personaggio femminile, quella Margret Wittmer sontuosamente interpretata da Sidney Sweeney, è protagonista suo malgrado di una delle intuizioni cinematografiche più forti dell'intero lungometraggio, ovvero la sequenza della nascita del bambino con lei accerchiata da rabbiosi cani selvatici e costretta a regredire, per la salvezza sua e del neonato, a una sorta di condizione ferina, bestiale. Quasi un'oscena “natività”, la sua, che diviene metafora di uno scontro tra Civiltà e Natura non andato a buon fine.
Del resto registicamente Eden è anche la summa di idee portate a compimento da Ron Howard con competenza tecnico-stilistica e coerenza a dir poco invidiabili. La stessa maestosità dell'isola è da lui introdotta sullo schermo con ammirazione ma senza alcun compiacimento. Non è forse un caso che la prima delle celebri iguane marine da lui fotografate sia solo una carcassa, quasi interamente spolpata da granchi e/o da altri animali...
Complice l'impatto disturbante e ansiogeno della colonna sonora di Hans Zimmer, una delle migliori che il geniale compositore abbia mai realizzato, l'incedere selvaggio della narrazione ingloba suggestioni d'ogni tipo: se la crisi creativa di Ritter, quel suo bloccarsi di fronte alla macchina da scrivere come a denunciare “un'assenza di scopo”, ci ha ricordato la per certi versi similare caduta del personaggio di Jack Nicholson in Shining, non meno interessante è la parabola cui va incontro il personaggio dell'ottimo Daniel Brühl. Quasi un alter ego del Dustin Hoffman di Cane di paglia, a nostro avviso. Inadeguato, complessato, “buonista”, il remissivo Heinz Wittmer sarà infatti costretto a cambiare prospettiva alleandosi col Dottore e soprattutto imbracciando un'arma, non diversamente da quanto avviene nel capolavoro di Peckinpah, pur di difendere il territorio e con esso il proprio piccolo clan. Regredendo repentinamente anche lui a uno stato animalesco.
Tante sono comunque le piste interpretative in un film maturo, penetrante e stratificato come Eden; per cui l'ultima parola vogliamo lasciarla allo stesso Ron Howard, che ha chiarito così parte della sua ispirazione: “Mi sono sentito connesso all'attualità: stiamo vivendo tempi di incertezza, sfiducia nella società e la sensazione che la civiltà ci stia soffocando. Vivere 'fuori dalla rete' è un tema sempre più discusso. Nonostante la loro storia risalga agli anni Trenta, le loro paure, la loro rabbia e le loro speranze suonano incredibilmente attuali. Quello che queste persone cercavano è molto comprensibile, molto riconoscibile anche oggi.”