In viaggio con mio figlio. La realtà dell'autismo tra fragilità, amore e autoironia

Articolo di: 
Teo Orlando
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Con il film In viaggio con mio figlio (ma il titolo originale è semplicemente Ezra, che rispecchia il giovanissimo protagonista), il regista Tony Goldwyn ci propone un bell'esempio di commedia drammatica (in inglese hanno perfino creato il neologismo dramedy o drammedia): elegantemente e spiritosamente riesce a fondere elementi del dramma e della commedia (il sitcom americano, in realtà); i due generi opposti drama (caratterizzato da contenuti seri, personaggi complessi, riprese non sequenziali, giusto dosaggio di interni ed esterni) e comedy (incentrata su dispute verbali, dialoghi concitati con botta e risposta, uso delle iperboli) si fondono, superando anche i limiti temporali ristretti della commedia. E quindi ci troviamo a che fare con una commedia drammatica familiare che affronta con delicatezza e un pizzico di humour un tema di non indifferente complessità: il rapporto tra un padre in crisi esistenziale e un figlio che sta sprofondando nello spettro autistico. Il film, che vede protagonisti Bobby Cannavale, William A. Fitzgerald, Rose Byrne e un intenso Robert De Niro, si sviluppa come un road movie dal sapore agrodolce, in cui il viaggio fisico si intreccia con un percorso di crescita interiore.

Max Bernal (Bobby Cannavale) è un comico newyorkese ormai sulla via del tramonto, che tenta di fare i conti con un matrimonio andato progressivamente in pezzi e di metabolizzare l'inevitabile divorzio. Si trova così a essere ospite, come i "mammoni" italiani e  suo malgrado, del padre Stan (un Robert De Niro al suo apice), uomo burbero ma dotato di una schietta umanità. Il figlio undicenne di Max, Ezra (interpretato dal giovanissimo e bravissimo William A. Fitzgerald), è un bambino brillante e sensibile, con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Dopo un incidente scolastico frainteso dagli adulti e una proposta medica che prevede il ricorso a psicofarmaci e l’inserimento in una scuola esclusiva per soggetti “con bisogni educativi speciali”, Max perde il controllo delle sue azioni. Angosciato dalla prospettiva di vedere il figlio imbottito di medicine e allontanato dalla sua quotidianità, fatta di una scolarizzazione difficile ma anche in qualche modo gratificante, il padre prende una decisione forse corriva: lo "rapisce", in piena notte, e parte con lui per un viaggio in auto attraverso gli Stati Uniti.

Questa decisione paterna di fuggire si trasforma progressivamente in un singolare viaggio on the road: è quasi un cammino condiviso tra due anime smarrite che, lungo la strada, si imbattono in personaggi imprevedibili e bizzarri. Ma il regista sa alternare sapientemente questi incontri con riflessioni intime e momenti di tensione con la madre di Ezra, Jenna (Rose Byrne), e, naturalmente con il nonno Stan. Alla fine Max e Ezra imparano a conoscersi, a capirsi, e – soprattutto – a compiere quel faticoso processo che si chiama ri-conoscimento: processo che il filosofo tedesco Axel Honneth, allievo di Jürgen Habermas e interprete di Hegel, definisce come il rapporto che il soggetto instaura con un altro soggetto per pervenire alla "coscienza" del suo "Sé". Il "riconoscimento" (Anerkennung in tedesco, tradotto in inglese con recognition) è nient'altro che la reciproca limitazione del proprio desiderio egocentrico a vantaggio del rispettivo altro. Ed è proprio questo il rapporto che si instaura tra padre e figlio, che non si limita a tradurre un desiderio o un bisogno, perché diventa il mezzo (sociale) attraverso il quale viene soddisfatto il desiderio di esperire la propria attività trasformatrice di realtà.

Il riconoscimento in fondo è un bisogno ontologico, cioè legato al modo stesso in cui un soggetto può percepirsi come attivo nel mondo. Max, all’inizio del film, è un uomo in frantumi: divorzio, fallimento professionale, precarietà identitaria. Non riesce a riconoscersi come padre, né come artista, né come adulto. La società (scuola, medici, tribunali) lo disconosce, e lui stesso si percepisce come passivo.

Ma nel rapporto con Ezra – e in particolare nelle risposte di Ezra alle sue azioni, anche quando sono confuse o errate – Max inizia a scorgere sé stesso. È nel momento in cui Ezra lo rimprovera, o gli dice che ha sbagliato, che Max esce dal narcisismo della “protezione” e comincia a capire che l’altro non è oggetto del mio amore, ma soggetto attivo del mio riconoscimento. Solo nel momento in cui l’altro ci resiste (moralmente, affettivamente), possiamo apprendere davvero la nostra soggettività.

Nella scena conclusiva, in cui Max e Jenna trovano un nuovo equilibrio condiviso, e in cui Ezra assume finalmente una posizione attiva nella sua stessa narrazione, si intravede una trasformazione del legame in un vincolo comunitario. Non c’è ritorno all’ordine, ma semmai l'emergenza di un nuovo ordine relazionale: fragile, imperfetto, ma fondato sulla comprensione della reciproca vulnerabilità.
 
Una delle qualità più apprezzabili del film è la sua capacità di non fare della condizione autistica il fulcro del racconto, quanto piuttosto di collocarla in uno sfondo complesso e credibile di relazioni familiari, incomprensioni e desideri che rimangono non espressi. Ezra non è mai rappresentato come un “problema” da risolvere, ma come un soggetto pieno, autonomo, dotato di una propria visione del mondo. È Max, piuttosto, a trovarsi in una condizione di fragilità emotiva e disorientamento esistenziale. E in un curioso ribaltamento, sarà proprio il figlio a fungere da guida silenziosa per il padre, costringendolo a confrontarsi con i propri limiti, con le proprie paure e con la responsabilità profonda dell’essere genitore.

Il film si inserisce peraltro in una lunga tradizione cinematografica che ha provato a raccontare la diversità mentale e comportamentale, spesso però scivolando in stereotipi o formule narrative troppo consolatorie. Tra questi lungometraggi, non possiamo non citare Rain Man (1988), il più celebre capostipite del genere, che trasformava l’autismo in una sorta di eccezionalità geniale: Dustin Hoffman interpretava un personaggio affascinante, ma quasi mistico e inaccessibile. Ezra, invece, è un bambino reale: non ha poteri straordinari, ma emozioni, timori e desideri riconoscibili. Non è il diverso "da compatire" o "ammirare", ma un bambino da ascoltare.

Anche Forrest Gump (1994) – pur mai esplicitando una diagnosi – presentava un protagonista neurodivergente che attraversava la storia americana grazie a una purezza inconsapevole. Ezra si muove in direzione opposta: non è l’America a cambiare per lui, ma lui (e chi gli sta intorno) a cercare il proprio posto nell’imperfezione del presente.

Tra i film italiani, ci viene in mente Il grande cocomero (1993) di Francesca Archibugi, dove la regista romana aveva mostrato una sensibilità nuova verso l’infanzia neuroatipica, privilegiando lo sguardo dello psichiatra (in particolare di Marco Lombardo Radice, a cui il film dichiaratamente si ispira). Nel film di Goldwyn, invece, sono la soggettività del bambino e il punto di vista familiare a guidare la narrazione. L’autismo non è un mistero clinico da decifrare, ma una forma diversa di abitare il mondo e di relazionarsi.
 
Uno sguardo sul cast ci porta a valutare positivamente Bobby Cannavale, che offre una delle sue interpretazioni più mature: Max è un personaggio complesso, a tratti sgradevole, ma mai privo di umanità. La sua rabbia è quella di un uomo che ama profondamente suo figlio, ma che non sa come proteggerlo senza distruggere tutto il resto. William A. Fitzgerald, nel ruolo di Ezra, è sorprendente: la sua recitazione asciutta, naturale, evita ogni forma di caricatura e restituisce un personaggio autentico e toccante. Rose Byrne è credibile nel ruolo di una madre lacerata tra il bisogno di stabilità e l’istinto materno, mentre Robert De Niro, pur in un ruolo di sfondo, riesce con pochi tratti a costruire un personaggio credibile, lontano dagli stereotipi del nonno saggio o buffo: tipico modo di interpretare anche sé stessi di un grande attore. Chiude il cerchio un cameo di Whoopi Goldberg, brillante come sempre, nel ruolo dell’agente di Max.
 
Tony Goldwyn dirige con discrezione, lasciando spazio ai personaggi e alle loro dinamiche. Il ritmo è ben calibrato, con sequenze che alternano leggerezza e introspezione. Il viaggio attraverso l’America, da New York a Los Angeles, diventa metafora di una trasformazione interiore, con paesaggi che riflettono lo stato d’animo dei protagonisti. La fotografia di Daniel Moder accompagna il racconto senza ostentazione, privilegiando colori caldi e naturali. La colonna sonora di Carlos Rafael Rivera sottolinea con delicatezza le emozioni, senza mai appesantirle.

In conclusione, In viaggio con mio figlio non rivoluziona il genere del road movie familiare, né pretende di offrire soluzioni universali. Ma riesce in ciò che conta: raccontare con onestà e calore umano la difficoltà e la bellezza di crescere insieme. Padre e figlio, entrambi “inadeguati” a modo loro, diventano compagni di strada in un mondo che spesso li vuole conformi e silenziosi. Rispetto ai film che lo hanno preceduto, Ezra sceglie di non mitizzare né semplificare, ma di ascoltare. E ci invita a fare lo stesso. È un film che fa ridere, commuove e lascia spazio alla riflessione. E che soprattutto ci ricorda una cosa semplice e preziosa: l’amore non è perfetto, ma può essere sufficiente.

Pubblicato in: 
GN23 Anno XVII 14 aprile 2025
Scheda
Titolo completo: 

In viaggio con mio figlio
Titolo originale Ezra
Lingua originale    inglese
Paese di produzione    Stati Uniti d'America
Anno    2023
Durata    100 minuti
Genere    commedia, drammatico
Regia    Tony Goldwyn
Sceneggiatura    Tony Spiridakis
Produttore    Tony Goldwyn, Tony Spiridakis, William Horberg, Jon Kilik
Casa di produzione    Wayfarer Studios, Closer Media
Distribuzione in italiano    BiM Distribuzione
Fotografia    Daniel Moder
Montaggio    Sabine Hoffman
Musiche    Carlos Rafael Rivera

Interpreti e personaggi

Bobby Cannavale: Max Brandel
Robert De Niro: Stan Brandel
Rose Byrne: Jenna
William Fitzgerald: Ezra Brandel
Vera Farmiga: Grace
Whoopi Goldberg: Jane
Rainn Wilson: Nick
Tony Goldwyn: Bruce
Geoffrey Owens: Robert Segal
Alex Plank: dottor Kaplan
Matilda Lawler: Ruby