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Accademia D'Ungheria. Bartók, da Barbablù al Duende
Per la seconda volta siamo stati graditi ospiti nella splendida cornice di Palazzo Falconieri, sede dell'Accademia d'Ungheria a Roma, per ascoltare la musica di uno dei massimi compositori ungheresi insieme a Ferenc Liszt: ovvero, Béla Bartók. Inoltre, fino al 3 marzo 2024, è possibile visitare l'esposizione di János Kass: Il Castello di Barbablù, omonimo titolo dell'unica opera scritta da Bartók e in mostra nella galleria di fronte al Grand Salon, mostra organizzata in collaborazione con il Museo Móra Ferenc.
Prima di Natale, il 12 dicembre, si è svolto un concerto da camera molto particolare, con la versione di quest'opera con la partecipazione di Diána Hajdú (nel ruolo di Judit), Péter Cser (nel ruolo del Principe Barbablù) e di István Dénes al pianoforte. Dénes ha prima spiegato tutta la storia al pubblico coinvolto, in modo da rendere esplicita la complicata trama ricca di simbolismi e metafore, nonché ambiguità, nella versione di Béla Bartók della favola.
L’unica opera di Béla Bartók (1881-1945), Il castello del Principe Barbablù (A kékszakállú herceg vára, in originale ungherese, op. 11), è stata composta nel 1911 (con alcune modifiche apportate nel 1912 e un nuovo finale aggiunto nel 1917): l'opera è concepita in un atto ed è stata scritta su libretto di Béla Balázs – poeta, regista e sceneggiatore e amico del musicista – che la dedicò a lui e a Kodaly in prima stesura. Diretta per la prima volta da Egisto Tango nel 1918 al Teatro dell’Opera di Budapest, non ha avuto vita facili, a causa delle vicende politiche ungheresi ed dell’impegno rivoluzionario di Balázs stesso. Ispirato in parte all’Ariane et Barbe-Bleue (1899) del simbolista Maurice Maeterlinck – il quale aveva scritto il libretto per Pelléas et Melisande musicato da Debussy nel 1902 –, che era servita da libretto per l’omonima opera di Paul Dukas, del 1907 (dove Ariane libera tutte le mogli e si salva), la favola di Barbablù uccisore di tutte le mogli proviene da La Barbe bleüe di Charles Perrault nelle Histoires ou Contes du temps passé (1697). Nella versione della favola però, al contrario della versione ungherese, l’ultima moglie si salva nonostante la condanna morale dell’eccessiva curiosità (che non può in ogni caso condurre alla morte). La versione postmoderna di Angela Carter (1940-1992) è La camera di sangue (da The Bloody Chamber and Other Stories, 1979, Vintage, London, 1995; in italiano: La camera di sangue, Feltrinelli, Milano, 1995), in cui la protagonista viene salvata dall’intervento coraggioso della madre che spara ad un moderno Barbablù.
La musica in Barbablù ricalca il percorso dei due personaggi, sottolinenandone la natura ed i mutamenti psicologici attraverso l’apertura delle sette porte: nella versione ascoltata, la voce del mezzosoprano Diána Hajdú come Judit perfettamente ricalcava questo inabissarsi nel vuoto e nel nero del Duca sanguinario e misogino, e la sua portata canora, anziché chiarirsi, si tingeva di scuro anche lei. Il basso Péter Cse, nel ruolo di Barbablù, diveniva crudele e straniante, come se volesse dimenticare il triste compito che si è dato. Grandissima prova anche per István Dénes al piano, preciso e perentorio conduttore di questo rituale misterico, come era negli intenti di Balázs, e che ribatte l’intervallo dissonante di seconda, che ritorna ad ogni apertura di porta, mentre il timbro della voce di Barbablù si fa più grave e sinistro ad ogni nuova domanda di Judit che, perentoria, aprirà tutte le porte.
La settima porta le rivelerà le altre tre mogli di Barbablù, vive e non morte, e la sua stessa prigione perché, come loro, entrerà nell’ultima sala: indossando il mantello stellato della notte, i gioielli e la corona per accompagnarle come moglie della notte, dopo l’alba della prima, il mezzogiorno dorato della seconda e la sera scura della terza. Il pubblico ha applaudito a lungo una performance assolutamente eccezionale.
Il concerto del 18 gennaio, beneaugurante per l'anno appena iniziato, è, di nuovo, parzialmente dedicato a Béla Bartók, e fa parte del ciclo I Giovedì in via Giulia, in collaborazione con il Conservatorio di Santa Cecilia e l’Università di studi musicali Liszt Ferenc all'Accademia d'Ungheria.
Dávid Báll, classe 1982, ci ha deliziato con maestria al piano, aprendo il concerto, quasi interamente dedicato a Béla Bartók con le Tre canzoni popolari di Csìkmegye, proseguendo con una selezione "Per bambini" e chiudendo la sua performance con le fascinose e trascinanti Danze popolari rumene. L'ultima composizione, a firma Ferenc Liszt, sono state le complesse Reminescenze dall'opera Norma (di Bellini), che conducevano lo spirito a meditare profondamente sul senso e lo sviluppo di tali complessità armoniche, le une avvilluppate alla altre, come se sfere concentriche si sviluppassero l'una dentro l'altra, matrioske del pensiero.
Il Maestro ha studiato all'Accademia Ferenc Liszt di Budapest ed è in ascesa viaggiando tra Royal Albert Hall e Carnegie Hall, nonché in Europa, alla Elbphilharmonie di Amburgo e al Musikverein di Vienna.
Il concerto ha poi visto alla prova due flautiste: la prima dal Montenegro, Petra Lekić, con in programma la Sonata in la minore di Carl Philipp Emanuel Bach, con una tecnica dalla precisione fantastica; e Maria Inmaculada Climent Cortés da Andorra, che, dopo l'Andante appassionato di Elisenda Fabregas, ha intonato una misteriosa composizione contemporanea intitolata allo spirito ammaliatore del flamenco, Duende di Julia Claver Pater, e che scegliamo di descrivere con le parole di Federico Garcia Lorca:
"Il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare."