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The American. Il cieco zampillìo nel tempo di una farfalla
Le atmosfere illibate e granulose di Control (2007) di Anton Corbijn qui in The American si staticizzano: diventano delle immobilità desuete che dipingono sui volti una tristezza immalinconita, che emerge dal volto di George Clooney quasi agonizzante in termini di impossibilità ad agire. Ed è solo la compagnia di Clara, interpretata da Violante Placido, che lo distoglie fino a dargli una direzione che, per tutto il film, è l’unico slancio dell’attore quanto del personaggio.
Nei panni della spia che dà l’incarico a “L’americano” George Clooney conosciuto anche come Mister Farfalla dal tatuaggio sulla schiena, è così che viene chiamato per tutto il film, tranne per l’evidente falso “Edward” od improbabile “Edoardo”, è la collega Mathilde, l’olandese Theckla Reuten che, algida, di certo non può annoverarsi fra i suoi amici. D’altronde “L’americano” non ne può avere, tantomeno di amiche, con cui trascorrere la notte, oppure il giorno, per non mettere a repentaglio la sua e la loro vita.
Solo Padre Benedetto, il parroco di Castel del Monte - uno dei borghi più affascinanti dell’Abruzzo dove si nasconde L'Americano -, interpretato da Paolo Bonacelli, può stargli ogni tanto vicino senza correre troppi rischi: sembra aver indovinato tutto come il figlio illegittimo avuto in gioventù, il meccanico desolato e generoso interpretato da Filippo Timi. La giovane prostituta Clara (non escort – non c’è bisogno di alleggerire, il mestiere è quello: si potrebbe magari colpire e stigmatizzare i clienti magari) è l’unica ad essergli vicina, come se quegli occhi, quelli di Clooney, stanchi, si siano chiusi su qualsiasi speranza di vita in un girotondo di morte.
I diversivi, gli svedesi che gli danno la caccia, sono dei puntellamenti nel dirigerlo altrove, verso una cascata di emozioni ancora in acqua sorgiva, vicino al ruscello e lontano da ogni centro abitato, lì, dove dà lezioni di tiro alla glaciale Mathilde, lì, dove per la prima volta si recherà con una donna ma non per sparare.
La regia di Corbijn, celebre per i suoi video d’effetto per U2, Depeche Mode e tanti altri, nel 2007 ha sperimentato la regia con Control (in bianco e nero), sul leader suicida dei Joy Division, Ian Curtis (1956-1980), con un risultato eccellente. Qui si trovano stralci anche di quella regia: il modo particolare di usare la telecamera, fissa su uno sguardo fermo, presume un osservatore che guardi oltre, nello spessore delle emozioni che attraversano i personaggi.
La sceneggiatura di Rowan Joffe per The American è asciutta, veloce, i personaggi dicono solo il necessario: è strutturata su sottrazioni multiple. La fotografia di Martin Ruhe è pallida, ed è il terzo occhio del personaggio, la sua vista trascendente su quello che avverrà: i vicoli, la pietra dura e levigata, le luci gialle o bianche e fredde, cromatizzano ciò che è scritto sul giornale al bar, segni di morte, presagi che bloccano lo zampillio del tempo e lo rendono eterno soltanto nello sprizzare sul ruscello, nel fluire madido dell’acqua.