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Battito alla Casa delle Culture. La limitatezza dell'indulgenza
Dal 19 al 24 gennaio 2010 al Teatro della Casa delle Culture per la regia di Angelo Pavia con Alessandro Di Somma, Lucia Tamborrino e Marco Zordan, il dramma Battito tratto dal Woyzeck di Georg Büchner, si profila come un incubo intrecciato tra potere e sfruttamento, in totale sprezzo delle componenti umane.
Il Woyzeck (1836-37) di Georg Büchner – ricordiamo l’opera lirica Wozzeck scritta da Alban Berg nel 1925 – è una pièce teatrale rimasta incompiuta e pubblicata postuma, la cui struttura aperta e frammentaria permette innumerevoli variazioni nella messinscena. Quella della compagnia La Cattiva Strada e Teatro Hermitage e gli oggetti e costumi di scena di Antonella Conte sono quelli cui abbiamo assistito.
Battiti: i tacchi di Marie - Lucia Tamborrino risuonano sul pavimento duro di una fabbrica o di un ufficio sconosciuto e freddo, laminato di righe spezzate sullo sfondo di una parete anni ’70: i tre personaggi appaiono subito come estranei prima di tutto a se stessi, in un gioco dove gatto e topo corrispondono, quasi a giustificare il male ed il suo insegnamento precoce.
Il clima claustrofobico crea un triangolo che formula uno specchio fisico e metamorfico, nel quale la donna agisce come polo attrattivo per entrambi gli uomini, se non per rivelare il suo estremo squallore. Il suo leit motiv di affermare che l’una cosa esclude l’altra, in un gioco di specchi in cui gli uomini vengono a profilare la stessa silhouette sfruttatrice, come se lei non fosse persona distinta ed autonoma ma solo oggetto da possedere, non fa che rincarare la dose e motivare i loro comportamento da “padroni”.
La collana di triangoli che Andres, interpretato da Alessandro Di Somma, regala a Marie, è soltanto un altro passo verso il diluvio: un interno da discoteca dove lei agita il suo corpo divenendo impudica anche per lui e facendogli dire: “Il cielo sembra il soffitto dell’inferno”. In tutto questo spasimo da portierato di periferia dove i personaggi allibiscono di fronte a tale vuoto, s’insinua lo straccetto del bambino di lei, perché come tale è presentato: un panno rosso e dorato che lei getta per terra di continuo.
Marco Zordan come Fritz recita la parte di un essere pusillanime e lamentoso, nato senza nerbo e che soltanto un gesto inconsulto – dopo angherie e umiliazioni continue – fa ridestare: qui però i tre personaggi sembrano tutti condividere la stessa limitatezza indulgente che non conduce da nessuna parte, che inchioda i personaggi a quei pochi passi sul palcoscenico della vita, quegli “idioti” che Shakespeare chiamava a rapporto, di tanto in tanto.