A Complete Unknown. Il segreto soffia nel vento

Articolo di: 
Davide Tartaglia
Dylan Chalamet

Dico spesso (soprattutto a me stesso) che Bob Dylan mi ha salvato la vita. È un’iperbole abusata nei confronti degli artisti, retorica e anche un po’ naïf con la quale si cerca di ostentare un’affinità elettiva che in qualche modo ci qualifichi o che dica al posto nostro qualcosa che non si riesce a dire. Forse è un po’ così anche nel mio caso, ma quello che è certo è che la musica di Dylan è stata compagna imprescindibile in un momento complicato della mia vita. In quell’occasione posso dire di averlo veramente “incontrato”.

L’ho ascoltato ininterrottamente per mesi e quella ferita mi ha permesso di entrare nel mondo di Dylan superando la naturale ritrosia e ostilità che la sua musica e la sua voce immediatamente generano. Ascoltarlo mi ha sempre fatto un effetto strano, raro. È sempre stato capace di pacificarmi, di offrire un nuovo respiro al cuore, alla mente, al pensiero. Come un’improvvisa boccata d’aria. E l’ho trovato sempre un po’ curioso perché la musica di Dylan a primo impatto sembra andare nella direzione opposta: claustrofobica, ostica, ruvida, difficilmente accomodante, ha un nucleo interno chiuso in sé stesso e una potenza che difficilmente emerge in superficie ad un primo ascolto, ha bisogno di un non banale lavoro di sintonizzazione e di scavo. Comunque, in quel momento complicato, è iniziato il mio rapporto con Dylan e da quei giorni, più lo ascolto, lo leggo e lo studio e più la domanda che riemerge potente è: ma esattamente che cosa c’è in quest’uomo e nella sua opera che è capace di incontrarmi in maniera così radicale?

Direi che A Complete Unknown, il biopic a firma di James Mangold, mette a fuoco proprio la risposta che in questi anni mi sono dato a questa domanda: Dylan è capace di incontrarmi perché intercetta un’esigenza profonda che mi porto dentro – e che credo appartenga a tutto gli uomini: l’esigenza di una totale lealtà senza compromessi con quello che sono. E dunque con quel lampo di vero che si coglie nella vita e che spesso non si ha l’energia di seguire fino in fondo. Dylan mi libera perché con la sua musica mi ha sempre offerto il coraggio per guardarmi senza paura, lui che nella sua lunga carriera di cambiamenti repentini ha sempre detto una sola cosa: se vuoi vivere e non sopravvivere non devi tradire quello che sei. E se non lo sai ancora, non chiudere quella domanda bruciante anche se fa male, anche se vorresti risolverla in fretta.

Una vita artistica in perenne equilibrio precario, tra capolavori altissimi e fragorose cadute. Uno che non ha smesso di rischiare: questo ai miei occhi lo ha reso sempre unico. Lo ha fatto quando appena ragazzino imbraccia una chitarra, lascia casa e si mette sulle tracce del suo idolo folk Woody Guthrie, lo ha fatto quando ingabbiato dalla stessa ideologia dei diritti civili che aveva sostenuto si trova costretto in un abito che non è più suo e di cui coglie le contraddizioni e decide di far venire giù tutto a Newport imbracciando una chitarra elettrica; lo ha fatto all’inizio degli anni '80 con la sua peculiare svolta cristiana e poi ancora con Oh Mercy quando sembrava non avesse più nulla da dire, e poi ancora quando tutto il mondo pende dalle sue labbra per nuovi album inediti e lui tira fuori una trilogia di cover di Sinatra, e poi quando lo premiano con il Nobel per la letteratura e lui nemmeno si presenta a ritirarlo, e poi e poi…

E poi ogni volta che sale sul palco da 60 anni piegando melodie e testi alla novità che sente premere dentro facendo tornare a casa migliaia di fan con l’amaro in bocca perché non hanno ascoltato Blowing in the wind. Ma non perché non l’abbia fatta, ma perché non l’hanno riconosciuta.
“Non sopporto quando qualcuno vuole dirmi qual è la cosa “morale” da fare. Desidero che me la mostrino. Se hanno qualcosa da dire a proposito della morale, voglio sapere come vivono. La stessa cosa vale per me. Tutto quello che posso fare per le persone che mi pongono domande è mostrare come vivo. Tutto quello che posso fare è essere me stesso”. Così risponde in una splendida intervista del 1964 a Nat Hentoff.

Tutto quello che posso fare è essere me stesso. In questo c’è tutto Dylan e c’è il motivo per il quale la gente ancora lo odia, lo ama, lo studia. E perché ancora è capace di cambiare la vita della gente.
Il film di Mangold fa una scelta felice – forse l’unica possibile con un personaggio così inclassificabile e debordante come Dylan: decide di raccontare solo i primi quattro anni della sua carriera. Dal 1961 al 1965, gli anni folgoranti del successo, quando da vagabondo autodidatta della chitarra lascia il Minnesota per raggiungere New York a conoscere il suo idolo Woody Guthrie e in poco tempo diventa uno dei personaggi più importanti degli States, un talento che squarcia in due l’ambiente artistico seminale e in fermento del Greenwich Village nobilitando un genere marginale come il folk e conferendogli una forza rivoluzionaria e politica inimmaginabile. Fino all’alto tradimento di Newport in cui si becca il famosissimo “giuda” – il primo di tantissimi – dal pubblico che lo aveva osannato (nella realtà avvenne l’anno successivo).

In mezzo vediamo fiorire il suo talento fulminante, il suo umano scontroso, ombroso e insieme di un fascino imprendibile, il suo processo creativo che si nutriva delle complesse vicende politiche americane degli anni '60 e soprattutto il suo rapporto complesso e decisivo con le donne della sua vita (Suze Rotolo – nel film Sylvie Russo – e ovviamente Joan Baez. Sara arrivò appena dopo). La capacità interpretativa e di immedesimazione di Timothée Chalamet è straordinaria e il film non cade mai nella caricatura macchiettistica, rischio elevatissimo per un personaggio del genere. La capacità di restituire il clima di quegli anni a New York è strabiliante. Vedere improvvisamente davanti agli occhi gli episodi letti, vagheggati, immaginati e mitizzati per anni è commovente. Alcune cose mancano, inevitabilmente. È quasi assente dall’orizzonte la percezione dell’immensa formazione letteraria di Dylan (dai poeti simbolisti francesi, ai romanzieri americani fino alla cultura beat e alla Bibbia) e rimane un po’ penalizzata la figura di Suze Rotolo – che fu decisiva nella prima direzione artistica di Dylan.

Ma sono decisamente peccati veniali, perché il film di Mangold – il film di un innamorato – è uno scatto, una cartolina decisamente credibile dell’artista popolare forse più importante del secolo scorso e soprattutto di quello che in tutti i suoi cambiamenti in 60 anni di musica, letteratura, arte visiva ha cercato di dirci: “Ognuno vorrebbe che io fossi diverso, ma io come voglio essere? Come qualunque cosa non vogliano che io sia”.
Sempre grazie mr Dylan.

Pubblicato in: 
GN13 Anno XVII 3 febbraio 2025
Scheda
Titolo completo: 

A Complete Unknown

Lingua originale    inglese
Paese di produzione    Stati Uniti d'America
Anno    2024
Durata    141 minuti
Rapporto    2,39:1
Genere    biografico, musicale, drammatico
Regia    James Mangold
Soggetto    Dylan Goes Electric! di Elijah Wald
Sceneggiatura    James Mangold, Jay Cocks
Produttore    James Mangold, Timothée Chalamet, Alan Gasmer, Bob Bookman, Peter Jaysen, Jeff Rosen, Fred Berger, Alex Heineman
Produttore esecutivo    Bob Dylan, Michael Bederman, Brian Kavanaugh-Jones, Andrew Rona
Casa di produzione    Range Media Partnersm Veritas Entertainment Group, The Picture Company, Turnpike Films
Distribuzione in italiano    Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia
Fotografia    Phedon Papamichael
Montaggio    Andrew Buckland, Scott Morris
Scenografia    François Audouy, Regina Graves
Costumi    Arianne Phillips

Interpreti e personaggi

Timothée Chalamet: Bob Dylan
Monica Barbaro: Joan Baez
Elle Fanning: Sylvie Russo
Edward Norton: Pete Seeger
Boyd Holbrook: Johnny Cash
P. J. Byrne: Harold Leventhal
Scoot McNairy: Woody Guthrie
Dan Fogler: Albert Grossman
Will Harrison: Bob Neuwirth
Norbert Leo Butz: Alan Lomax
Eriko Hatsune: Toshi Seeger
Charlie Tahan: Al Kooper

Uscita al cinema 23 gennaio 2025