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Cantiere Teatrale Arnone. Rimbaud, il ladro di fuoco
Il Cantiere Teatrale Arnone di Roma ci ha offerto uno spettacolo, lo scorso 25 marzo di musica e parole: un'unione sincopata tra l'attore Marco Sicari ed il Maestro Giancarlo Evangelisti alla chitarra acustica per la regia di Antonella Bernabei. Fulcro della lettura scenica e musicata, le poète maudit par excellence: Arthur Rimbaud.
I testi del nostro “voyant”, poeta simbolista e maledetto la cui intima potenza non smetterà mai di stupirci, hanno costruito una “carrellata” filmica e rarefatta, in un'atmosfera che è stata scaldata prima, in opposizione alle parole ruvide, artigliate, di Rimbaud, con i ritmi bossanova e conturbanti del Maestro Giancarlo Evangelisti, a stemperare col pastello le urla veraci tratte da Le bateau ivre, Il battello ubriaco (1871); poi, con pennellate quasi di perpetuum mobile, hanno cadenzato, incupito ancora e ancora con le ribattute, per far esplodere quei suoni che il “nostro” veggente illumina con le sue sferzate sovrumane, trascendendo sé stesso:
Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia.
Quella follia che porta al palazzo della saggezza, come asseriva William Blake nell'alchemico Matrimonio del cielo e dell'inferno (The Marriage of Heaven and Hell, 1791): in fondo tra questo primo dark romantic e grande visionario c'è una linea continua: un secolo prima si dichiarava, in modi altrettanto nefasti, inneggiando a Satana miltonianamente, capovolgendo la lettura cristiana del Messia, involandosi in quel “Pandemonium” (1841) che John Martin ha così riccamente ritratto nelle fiamme. Gorgoglii che Rimbaud stemperava sentendoli ribollire tra le tenebre e i tormenti: tutto amplificato all'ennesima tensione, senza pause, come il “nostro” attore Marco Sicari, che detta ostinatamente un ritmo vorticoso a parole già di per sé rutilanti e spasmodicamente lanciate in corsa. D'altronde, come afferma Rimbaud, “Il poeta è un ladro di fuoco” (da Lettre du voyant, Lettera del veggente, 1871).
In questo spazio interiore, ovattato, circoscritto, ove le persone sono ancora loro stesse, dove gli applausi sono autentici e sentiti profondamente, si sono dipanate parole feroci contro e per la vita, in un ossimoro che solo Rimbaud, che ha smesso di scrivere a 21 anni, poco più che adolescente, si sono ascoltate le sue grida anche tamburellate nei pizzicati della chitarra; in una messa simbolista, una sorta di ovazione a tutti i poeti sinestetici del mondo, nel delirante sciabordio pagano di un battello ubriaco.
Vogliamo "conferire un bagliore" al termine, colle sue Illuminations (1886), musicate da Benjamin Britten nel 1940, con un passo da "Il genio":
Egli ci ha conosciuti tutti e ci ha amati tutti. Sappiamo, questa notte d'inverno, da promontorio a promontorio, dal polo tumultuoso al castello, dalla folla alla spiaggia, di sguardo in sguardo, con le forze e i sentimenti spossati, chiamarlo e vederlo, e di nuovo mandarlo via, e sotto le maree e al sommo dei deserti di neve, seguire i suoi sguardi, il suo respiro, il suo corpo, la sua luce.