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David Riondino e Dario Pisano. Decameron oggi
Venerdì 2 dicembre 2016 l'Auditorium Parco della Musica di Roma ha ospitato un singolare spettacolo nella Sala Petrassi. David Riondino, cantautore e artista di molteplici interessi e talenti, che, fin dagli anni Settanta, ha sperimentato percorsi multimediali all'insegna della fusione eclettica di vari generi e tipi di spettacolo (dalla poesia alla satira, dalla riscrittura dei classici al cantautorato), ha presentato in quest'occasione l'affresco umano del Decameron di Giovanni Boccaccio, attraverso una serie di ballate, canzoni, letture, recitazioni e improvvisazioni.
Con lui sul palco si sono esibiti vari attori, cantanti, studiosi e studenti. A cominciare da Maurizio Fiorilla (professore all’Università di Roma Tre, curatore di due edizioni del Decameron e bassista in chiave rock, quasi un incrocio tra Poliziano e Paul McCartney), che ha scritto e condotto il programma Umana cosa su Radio 3, da cui ha desunto alcuni brani eseguiti durante la serata. Come musicisti, lo hanno affiancato: il pianista Paolo Saolini, il chitarrista Fabio Marchei, il clarinettista Raffaele Magrone e la cantante e cantautrice Eleonora Cardellini (in arte Leonora). Due novelle del Decameron sono state recitate e interpretate con rara finezza e grandissima ironia da Dario Pisano, che combina il rigore del giovane studioso, le capacità divulgative unite a un'eccezionale memoria e una notevole capacità di tenere la scena e e sedurre il pubblico.
Il Decameron è il libro fondativo della tradizione narrativa moderna, scritto in volgare da Giovanni Boccaccio sulla scia dell'innovazione linguistica inaugurata da Dante Alighieri, di cui egli era un innamoratissimo studioso. Si potrebbe definire una sorta di libro dei libri, di racconto di tutti i racconti possibili, assurto a grande enciclopedia del narrabile, in cui viene rispecchiata l'infinita ricchezza dell'esistenza umana, modello per analoghe opere narrative, come i quasi coevi Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer. Come ha scritto Dario Pisano, siamo in presenza di "una magnifica rappresentazione letteraria della vita, che permetta alle donne – dedicatarie dell’opera – di ottenere un risarcimento virtuale per ciò che è stato loro precluso: un remedium amoris; una finestra sul mondo, fra le più belle che la letteratura abbia aperto".
Non a caso viene introdotto brevemente da una giovane studentessa, la quale precisa che consta di cento novelle, raccontate in dieci giorni da un gruppo di giovani, sette donne e tre uomini, in una villa nei pressi di Firenze, sui colli fiesolani, per sfuggire alla peste nera che imperversava intorno alla metà del XIV secolo. Segue una canzone introduttiva, che richiama vagamente lo stile di Angelo Branduardi, in cui si descrive efficacemente l'argomento e la struttura del Decameron.
La prima lettura insiste sulle conseguenze drammatiche della peste, che costò la vita ai due terzi della popolazione fiorentina, agli abitanti di una città ricca e opulenta, su cui si abbattè una sciagura di proporzioni bibliche, un’epidemia di peste nera che funestò anche altre città europee, tra cui Monaco di Baviera, dove ne fu vittima il grande filosofo Guglielmo di Ockham. Proprio come la Commedia di Dante, anche l’esordio del capolavoro di Boccaccio è cupo e fosco, giacché l’autore dischiude ai nostri occhi quasi una Waste Land medioevale, una terra desolata che cala sul nostro pianeta le contrade infernali. Per le strade del capoluogo toscano si respirano e si percepiscono ovunque morte, distruzione, miasmi infetti che ammorbavano l’aria e cadaveri in decomposizione. Boccaccio si ispira ad analoghe descrizioni che si trovano nella Guerra del Peloponneso di Tucidide, nel De Rerum Natura di Lucrezio e nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono (descrizioni riprese poi da Daniel De Foe, A Journal of the Plague Year, Alessandro Manzoni, I promessi sposi, e Albert Camus, La peste).
È notevole, tuttavia, come questo «orrido cominciamento» si contrapponga a un'atmosfera lieve e umoristica che compenetra tutto il libro, dall'autore definito come «una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene piacevole quanta maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravvegnente letizia sono terminate».
Oltre alle canzoni di Riondino, sicuramente il punto più alto dello spettacolo è stato rappresentato dalle due interpretazioni di Dario Pisano. La prima ha riguardato la prima novella della IV giornata, quella di Tancredi e Gismonda, in cui, per usare le parole dello stesso Boccaccio,«Tancredi prenze di Salerno uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro: la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore».
In questa novella, un padre ama la sua unica figlia di un amore eccessivo, a causa del quale trascura i bisogni emotivi della ragazza. Quest'ultima si innamora di un «giovane valletto del padre», che è però un ragazzo di umili natali, «ma per vertù e per costumi nobile», chiamato Guiscardo. Tra i due ragazzi comincia un amore tanto dolce quanto assurdo dal punto di vista delle convenzioni: la figlia di un principe con un un ragazzo senza nessuna sovrastruttura sociale. Quando Tancredi scopre questa cosa, si sente tradito dalla fiducia della figlia, e non riesce ad accettare che questa abbia scelto come amante un giovane così umile. La bella Ghismunda fa notare al padre che in quanto giovane donna è piena di «concupiscibile desiderio»: ma il padre non si convince, benché la figlia lo ammonisca: in caso decidesse di far giustiziare il suo amante, lei lo avrebbe seguito oltre le frontiere della vita.
Costui, pur colpito dalla forza d’animo della figlia, decide comunque di vendicarsi su Guiscardo, che farà uccidere brutalmente dai suoi servitori. In un momento di macabra ironia dirà a uno di questi di andare in camera della figlia a recapitarle una preziosa coppa d’oro che custodiva il cuore dell’amante ucciso. Alla povera Ghismunda, giunta all’estuario dell’infelicità, dopo aver baciato e lavato con le proprie lacrime il morto cuore, non resta che il suicidio: prepara dunque un distillato di erbe velenose che versa dentro la coppa, e «senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la beve, e bevutala, con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello, e al suo cuore accostò quello del morto amante; e senza dire alcuna cosa, aspettava la morte». Pisano giustamente paragona la tragica fine di Ghismunda a quella di altre eroine letterarie, come la Giulietta di Shakespeare e la Anna Karenina di Tolstoj: sul celebre suicidio di Ghismunda si proietta una luce che viene dal futuro; lancia un ponte con le grandi eroine del romanzo moderno, sicché il commento di Tolstoj può essere esteso anche alle grandi amanti infelici di Boccaccio, che optano per il suicidio come alternativa, remedium supremo al male di amare e di vivere: «E la candela al cui chiarore Anna aveva letto il libro pieno di angosce, di inganni, di dolore e di male, si infiammò di una luce più vivida che non mai; le rischiarò tutto quello che prima era nelle tenebre; scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre».
L'altra novella, meno drammatica, anche, se come ironicamente rileva Pisano, farà arrabbiare gli animalisti, è quella di Federigo degli Alberighi (Giornata V, novella 9): «ama e non è amato, e in cortesia spendendo si consuma, e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro, dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la quale, ciò sappiendo, mutata d’animo, il prende per marito e fallo ricco».
Federigo è un giovane «in opera d’arme e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel di Toscana», il quale è innamorato di una donna sposata, bella e inaccostabile: monna Giovanna. Per conquistare l’amore di costei, Federigo sperpera tutti i propri danari nell’allestimento di feste sontuosissime (sembra un po’ la storia del Grande Gatsby; qui Boccaccio è una sorta di Fitzgerald medievale), ma la donna rimane inaccessibile e lui finisce sul lastrico, senza più un centesimo. Gli rimane soltanto un bene di inestimabile valore: un falcone, l’emblema della più pura nobiltà aristocratica (nel medioevo infatti possedere un falcone era come oggi avere una Ferrari; un segno straordinario di distinzione sociale).
Federigo invita la donna a pranzo e le allestisce il falcone come pietanza succulenta. Purtroppo, il figlio della donna, gravemente ammalato, muore senza poter realizzare il desiderio di poter godere del falcone di Federigo. Ma la donna, ammirata dalla generosità di Federigo, decide di prenderlo come marito: «Io volentieri, quando vi piacesse, senza rimaritarmi mi starei, ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro se io non ho Federigo degli Alberighi».
La conclusione della novella racchiude una singolare chiave di lettura: si tratta di una sorta di revisione borghese-economicistica dello schema stilnovistico secondo il quale l’esperienza d’amore è un’esperienza di autoperfezionamento interiore. Federigo esce dalla logica autodistruttiva della cortesia, quella prodigalità smodata per cui si era rovinato, e comincia a coltivare le virtù borghesi della parsimonia e del risparmio. Dunque alla fine di questa novella, borghesia e cortesia, i due poli estremi del sistema ideologico tardo-medioevale, si scambiano finalmente una stretta di mano.
L'ultima parte dello spettacolo è dedicata alla canzone "La ballata del professore" (la melodia della quale ha mutuato efficacemente il motivo della canzone "Cristoforo Colombo" di Francesco Guccini): il "professore" non è altri che il grande filologo Vittore Branca (1913-2004), normalista, linceo e partigiano, forse il massimo studioso di Boccaccio mai vissuto. La presentazione è affidata a un affabile discorso di Maurizio Fiorilla, che riesce a raccontare una storia di manoscritti e filologia come se fosse un giallo. Fiorilla parte dal manoscritto autografo del Decameron conservato alla Staatsbibliothek di Berlino con la segnatura Hamilton 90, intrecciando la filologia e la drammatica storia del Novecento.
Vittore Branca tra l'ottobre del 1973 e il febbraio del 1974 ebbe a sua disposizione l’Hamilton 90, dopo averlo portato via da Berlino, grazie a una sorta di tacito salvacondotto del direttore della biblioteca ma senza un'esplicita autorizzazione governativa. Infatti, a causa della divisione delle due Germanie, per ragioni diplomatiche (il manoscritto dopo la seconda guerra mondiale era passato dalla Germania Est alla Germania Ovest, ma quest'ultima non poteva per nessuna ragione inviarlo all'estero: altrimenti lo avrebbe reclamato la DDR comunista), il codice non poteva essere inviato in prestito in Italia o in altro paese per le vie ufficiali. Fu lo stesso Branca molti anni dopo a ricostruire la rocambolesca vicenda nell’articolo "Così rubai il Decamerone" (uscito nel supplemento domenicale del Sole 24 ore del 16 aprile del 2000).
Branca aveva già avuto la possibilità di consultare nel 1961 il manoscritto Hamilton, allora a Marburgo, grazie al prestito internazionale e per via diplomatica, attraverso la Biblioteca Marciana di Venezia. Ma dopo dieci anni di lavoro, si convinse che che per definire il valore e il carattere di quel codice, ai fini di una rgiorosa edizione critica, era necessaria una consultazione diretta accurata e prolungata del tempo dell'originale stesso, che nel frattempo era stato trasferito nella Biblioteca Nazionale di Berlino Ovest. Branca, forte anche della sua autorevolezza come massimo studioso di Boccaccio, chiede nuovamente di poter consultare l'autografo, da far pervenire alla Biblioteca Marciana di Venezia, ma riceve sorprendentemente una risposta negativa.
A un certo punto, però, in una delle repliche del fitto carteggio intrecciato con la direzione della Staatsbibliothek compare una frase enigmatica: si suggerisce a Branca di recarsi personalmente a Berlino perché possa visionare direttamente il codice, oggetto di una recente e accurata operazione di restauro, e perché si possa studiare un modo di appagare le sue esigenze di una nuova e non fugace consultazione. Branca è perplesso, perché un'offerta di ospitalità e di agevolazioni di qualche settimana non gli avrebbero però permesso le collazioni e gli esami del manoscritto, che richiedevano vari mesi; e non avrebbe potuto assentarsi continuamente da Venezia, per i suoi impegni universitari e alla Fondazione Cini.
Branca parte comunque per Berlino, il 28 ottobre del 1973 per Berlino: siamo all'epoca del Muro, con la divisione tra la Repubblica federale tedesca dell'Ovest e la Repubblica democratica tedesca, con regime comunista, dell'Est e si presenta a Dalhem, dove era la sede provvisoria della Staatsbibliothek e viene accolto dal conservatore dei manoscritti, Tilo Brandis, il quale gli permette di consultare il manoscritto. Dopo qualche minuto di silenziosa contemplazione, con una sorta di «grande lezione di fede nello "spiritus veritatis" che deve essere superiore a ogni legge e a ogni regolamento (come disse lo stesso Branca)», il filologo italiano, sotto gli occhi sorridenti di Brandis, infilò nella sua capace borsa il più prezioso manoscritto del Trecento europeo, filando poi in taxi al centralissimo Hotel Kempinski, per depositare il codice nella cassaforte. Tuttavia, il codice non poteva, per le sue dimensioni, esser contenuto nella cassaforte. A quel punto, Branca decide di recarsi dal Console generale d'Italia a Berlino, Claudio Chelli, che custodì il manoscritto finché Branca non lo portò in Italia nella stessa cartella, sfuggendo miracolosamente ai controlli doganali. Arrivato a Venezia di sabato, fu costretto a tenerlo in casa fino al lunedì successivo, essendo chiuse biblioteche e banche dove avrebbe potuto far custodire il manoscritto.
Il lunedì successivo lo portò alla Marciana, dalla direttrice Eugenia Govi, chiedendole, con assoluto riserbo, di conservare nella camera blindata dei più preziosi cimeli della Marciana anche l'Hamilton 90. Contro ogni previsione, la risposta della direttrice fu pronta e decisa, proprio sulla linea di quella di Tilo Brandis: l'interesse per gli studi e per la cultura andò oltre ogni ritegno formale e burocratico.
Alla fine di febbraio del 1974, il 27 e il 28, il generosissimo Tilo Brandis venne di persona a riprendersi il manoscritto. Fu festeggiatissimo da Branca, dalla complice direttrice della Marciana e dai pochissimi amici al corrente dell'avventura, per la sua intelligente e generosa devozione alla ricerca. L'epilogo che se ne ricava è che tutti i protagonisti di questa vicenda furono egualmente impegnati nel segno della ricerca della verità avanti e sopra ogni cosa.