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Teatro Palladium. Dario Pisano biografo teatrale del Sommo poeta
Mercoledì 9 dicembre 2015, il Teatro Palladium ha visto la messa in scena di un singolare spettacolo: “Nel cammin della sua vita. Biografia scenica del Sommo Poeta”. Raffinata ricerca teatrale e incomparabile perizia filologica si sono incontrate per celebrare il 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, con un progetto universitario interdisciplinare che ha coinvolto studenti, dottorandi e docenti dei Dipartimenti di Studi Umanistici e di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre. Lo spettacolo, nato da un’idea di Dario Pisano e Giulio Carlo Pantalei, autori rispettivamente del testo e delle musiche originali, era già stato rappresentato in una forma più scarna e tendente al monologo in altre scene teatrali romane.
La sua peculiarità è quella di raccontare la vita di Dante muovendosi in continua oscillazione tra fedeltà storica ai dati biografici più accertati e trasfigurazione nella leggenda. Pisano ha attinto soprattutto alle testimonianze dei suoi più antichi biografi, in primis Giovanni Boccaccio, autore del Trattatello in laude di Dante.
Dopo alcune basi preregistrate con effetti sonori che indicavano un’inconsueta solennità, fa il suo ingresso il protagonista indiscusso dello spettacolo, Dario Pisano, giovane e reputatissimo studioso di Dante e della poesia italiana, vestito con abiti scuri ma non seriosi, ed esordisce con un’accattivante e meditata introduzione affabulatoria:
“Il primo giorno di maggio a Firenze era tradizione festeggiare la giovinezza eterna della vita. Il ritorno di questo mese coincideva con il trionfo della stagione più attesa: la primavera. La primavera rivestiva il mondo con il suo nuovo, eterno mantello, e risvegliava in tutti gli esseri la consapevolezza del dono misterioso di vivere: di compierlo, senza volerlo, un affascinante viaggio sperimentale”.
Questo è stato il giorno in cui il piccolo Dante incontrò la piccola Beatrice Portinari, la cui importanza per il grande poeta fiorentino è a tutti nota. Dario Pisano, dotato di una memoria prodigiosa, comincia allora a recitare il passo del Trattatello in laude di Dante scritto da Giovanni Boccaccio (forse la più grande dichiarazione di amore letterario che uno scrittore abbia dedicato a un altro scrittore, simile per certi versi a quella di Petrarca per Sant’Agostino), in cui Beatrice viene descritta come una bimbetta “la cui età era forse di otto anni, leggiadretta assai secondo la sua fanciullezza, e ne’ suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva le fattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una angioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale quale io la disegno, o forse assai più bella, apparve in questa festa, non credo primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostro Dante: il quale, ancora che fanciul fosse, con tanta affezione la bella imagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai, mentre visse, non se ne dipartì.”
Segue un intermezzo musicale, che, come tutti i successivi, vede al violino Riccardo Zanoni (che annuncia con voce solenne anche i vari episodi della vita di Dante) e alle chitarre Giulio Carlo Pantalei: si passa da brani di musica classica a variazioni in chiave rock, con varie fonti ispirative, dagli U2 ai Dire Straits.
La musica fa da sfondo anche alla performance della danzatrice Maria Elena Curzi, che con leggiadra leggerezza scandisce con le movenze del corpo il dipanarsi degli episodi della vita del poeta.
La narrazione prosegue con Dario Pisano che sottolinea come, per Dante, incontrare Beatrice era la misura del suo tempo, innamorato e sognante: negli occhi dell’amata si indovinavano anticipi di cielo sulla terra, ossia quella che Stendhal poi chiamerà la “promesse de bonheur” (la promessa della felicità). Come Dante stesso si esprime nella Vita nuova:
Tutti li miei penser parlan d’Amore;
e hanno in lor sì gran varietate,
ch’altro mi fa voler sua potestate,
altro folle ragiona il suo valore,
altro sperando m’apporta dolzore,
altro pianger mi fa spesse fiate;
e sol s’accordano in cherer pietate,
tremando di paura che è nel core.
Il narratore, alternandosi talora con la giovane e brava attrice Giuditta Pascucci, sotto la regia sapiente del professor Luca Aversano, prosegue il racconto, spiegando come Dante fin da bambino abbia mostrato una tale dedizione allo studio e una tale fama di sapere da diventare quasi un Ulisse dei sacri studi, al fine di varcare le colonne d’Ercole della conoscenza. Come sottolinea sempre Boccaccio, con grande zelo si “diede alle liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. Nel quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio, d’Orazio, d’Ovidio, di Stazio e di ciascuno altro poeta famoso”.
Ma “agro e valido nemico degli studi è amore”, sicché Dante non smette mai di pensare alla sua amata, al punto tale che il suo cuore diventa un feudo di Beatrice. E la città di Firenze diviene una sorta di mappa del sognato amore (ben diversa dalla mappa degli intrighi da thriller che caratterizza il romanzo Inferno di Dan Brown, pur ispirato alla Firenze di Dante), perché il poeta la attende a ogni angolo di strada. Anche un semplice saluto da parte sua sarebbe comunque un dono celeste, perché nella Firenze del tempo l’idea stessa di salutare una persona dell’altro sesso sulla pubblica via appariva come un’audacia estremamente temeraria. Infatti, Beatrice quasi mai salutava Dante! Le poche volte che accadeva (nella Vita nuova, il libro giovanile che ospita il resoconto di questo amore, riesce a farsi salutare due volte in nove anni!) tale era l’emozione che:
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
È comunque un amore tutto in salita, contrappuntato da sospiri e lacrime che rendono fertile il giardino del cuore, alimentando la pianta della poesia. Del resto, come ha scritto il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges, “Innamorarsi significa creare un universo il cui Dio è fallibile”.
Purtroppo Beatrice morirà preso, mentre il limitar di gioventù saliva, come la Silvia immortalata da Giacomo Leopardi, abbandonando così il povero Dante in un tetro oceano di lacrime. Il mondo assomiglierà allora alla Waste Land di Thomas S. Eliot (di cui abilmente poi Pantalei metterà in musica alcuni versi in chiave rock, tratti dai Choruses from The Rock: Where is the Life we have lost in living?/Where is the wisdom we have lost in knowledge?/Where is the knowledge we have lost in information?), e la vita diventerà un luttuoso ripetersi di giorni orfani del sorriso dell’amata, sicché il poeta sprofonderà in un’amarissima depressione. Sempre Borges sostiene che Dante compose “il miglior libro mai scritto dall’uomo” (la Divina Commedia) per incontrare di nuovo Beatrice e farla rivivere poeticamente, sicché ella potesse di nuovo sorridere, come faceva allorché la incontrava da ragazzo mentre era a spasso per Firenze e vedeva il cielo illimpidire nei suoi occhi.
Nel Paradiso, sottolinea Pisano con lieve e a un tempo solenne riflessione, quando Beatrice lo accompagnerà in un viaggio che nessuno uomo vivo prima di lui aveva compiuto, Dante tornerà a cantare colei che, quasi al cospetto di Dio, trasforma la sua mente innamorata in un Paradiso (“imparadisa la mia mente”, dice il poeta stesso). E nel XXX canto dell’ultima cantica della Commedia, avviene quasi un’apoteosi dell’amata:
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Gli amici di Dante, afflitti dal lutto, lo aiutarono a cercargli una fanciulla da sposare, e gli presentarono Gemma Donati, fiorentina di buona famiglia, anche se in realtà per Boccaccio il matrimonio fu determinato da questa circostanza, mentre altri biografi sostengono che fosse combinato dalle rispettive famiglie. Del resto, nel Medioevo, come diceva Andrea Cappellano, autore del celebre trattato De amore, "amor non est causa coniugii (l'amore non è la causa del matrimonio)". Il matrimonio era così un'istituzione legata a meri interessi dinastici e finanziari. Con una punta di sarcasmo, Pisano osserva che invece oggi è un'istituzione fondata sulla corrispondenza dei sentimenti, tant'è vero che funziona benissimo...
Boccaccio non nasconde una certa misoginia, quando osserva che Dante avrebbe fatto meglio a sposarsi con la filosofia, perché le mogli vengono a diventare un fastidioso disturbo che sottrae tempo agli studi. Analogamente, anche la politica e le mareggiate della storia avrebbero intralciato la vita e la creatività di Dante, che avrebbe dovuto autoesiliarsi dai problemi del suo tempo per dedicarsi esclusivamente alla poesia e agli interessi filosofici.
Ma è come se la passione politica avesse preso il posto di quella amorosa e con una sorta di transfert la sua città, Firenze, avesse sostituito Beatrice. Ed è proprio all'apice della sua carriera politica, mentre correva l'anno 1300, che gli si profilò un'intuizione straordinaria, quella di consacrare un'opera per mostrare come gli uomini corrotti e viziosi sarebbero stati destinati a orribili pene, mentre i virtuosi avrebbero avuto altissimi premi. E dato che aveva preposto la poesia a ogni altro studio, volle scrivere un libro in versi sulla vita degli uomini e sul senso del loro apparire sulla terra, in modo da abbracciare l'infinita mutevolezza dell'esistenza, che, per citare le parole di Boccaccio seppe "essere di tre maniere, cioè viziosa, o da' vizii partentesi e andante alla vertù, o virtuosa". E quindi, "quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nel premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale tutto intitolò Comedia". Un ripensamento della storia umana, quindi, descritta come un percorso ascensionale dal peccato più turpe fino alla più alta dedizione al bene. Per citare le parole di Borges, "come la lingua di Shakespeare, come l’algebra o il nostro passato, la Divina Commedia è una città che non riusciremo mai a esplorare nella sua interezza; la terzina più consunta e ripetuta può, una sera, rivelarmi chi sono io o che cos’è l’universo".
Dopo essersi soffermato sui dolorosi anni dell'esilio da Firenze, non senza prodigarsi anche nel racconto di varie storie di taglio aneddotico, Pisano conclude la narrazione rievocando una leggenda raccontata, inter alios, da Mario Tobino: trovandosi in esilio a Pisa, si trovò a frequentare la casa di un notaio e conoscere i suoi figlioli. Tra questi, in un ideale scambio dell'anello e del talismano della poesia italiana, il vecchio Dante si trovò ad accarezzare la testa di Francesco Petrarca bambino.