Supporta Gothic Network
La doppia ora. Le incerte gradazioni del grigio
L’opera prima di Giuseppe Capotondi ovvero La doppia ora, con Ksenia Rappoport nella parte della giovane slava Sonia, ed il tenebroso Filippo Timi in quella dell’ex-poliziotto Guido, sembra una specie di puzzle nero con finale (non troppo) a sorpresa.
Dimentichiamoci subito tempi paralleli, Borges e kabbalà: qui, nonostante l’apparente superficie numerica lo faccia presagire, si tratta di coincidenze. La doppia ora che nei primi tre casi in cui si presenta nel film formula un cinque, non ha nulla a che fare con i cinque sensi, con la rosa, il pentagono oppure il microcosmo umano. Perlomeno il regista e gli autori non ci hanno pensato minimamente, nemmeno a Borges, nonostante il film sia evidentemente diviso in due parti che rappresentano ciascuna un “sogno della farfalla” (“siamo noi che sogniamo oppure è qualcuno che sogna noi”? per approfondimenti e: "Zhuangzi sognò di essere una farfalla. Svegliatosi, non sapeva se era Zhuangzi che aveva sognato di essere una farfalla o se era una farfalla e stava sognando di essere Zhuangzi." di Zhuangzi, da Antologia della letteratura fantastica, a cura di Borges, Ocampo, Casares, ed. Einaudi, 2007, trad. di Enrica Z. Merlo).
Rtorniamo al film: un noir perfetto con alla base “a boy meet a girl”, in questo caso Guido incontra Sonia e se ne innamora. Sonia viene da Lubiana e fa la cameriera in un grand hotel di Torino. Si incrociano ad uno speed-date e cominciano a vedersi. Senonché lui muore in una rapina in cui lei è coinvolta. Da quel momento le ripetizioni orarie si fanno continue: dalle 23.23 del primo incontro fino alle 14.14 in cui lo vede nella videocamera (o crede di vederlo) dell’albergo quando “dovrebbe” essere già morto, fino alle 05.05 di un altro evento funesto che non sveleremo.
Ciò che ci si chiede è soprattutto che parte fa la ragazza e poi: chi è Guido? Come mai uno come lui si fa in qualche modo ingabbiare subito dagli occhi dolci ma melliflui di una ragazza, sì carina, ma che dopotutto non è certamente brillante e non dice quasi nulla di sé. La magia dell’amore, oppure dell’insolito. Quella specie di gabbia umana che riflette una cappa fumosa sulle persone sfuggenti, come se fossero dotate per questo di qualche peculiarità rara, gradazioni di grigio che in fondo non tolgono nulla al balenare incerto dei colori, luci che si confondono nelle distanze, spaziali e temporali. E forse la soluzione è in superficie, come asserirebbe Auguste Dupin, alla fine del film.