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Emma Dante al Valle. La statura morale delle pulle
Dall’8 al 24 gennaio 2010 una monografia su Emma Dante con tre spettacoli, Le pulle, Vita mia e Acquasanta, lectio magistralis, una mostra fotografica ed un libro su di lei, nel teatro dove ha vinto il Premio Scenario con mPalermu nel 2001, il Teatro Valle. Il primo degli spettacoli, Le pulle, è da consigliare soprattutto a chi crede di essere lontano da certe realtà di degradazione.
Si apre il palcoscenico su una parete tappezzata di rosso fuoco, siamo in un bordello ci dice Mab (Emma Dante), la levatrice delle tre fate che, come delle bambole impazzite, sono prese da convulsioni ed atterrano sul palco fremendo ed agitando braccia e gambe come automi. Trasfondono l’anima femminile alle Pulle (le puttane in palermitano), l’operetta amorale che più morale non si può, scritta e diretta da Emma Dante nel 2008.
Canta Mab: “Queste cinque pulle a chi le darò?”, si preoccupa come le fate della favole, di questi quattro travestiti ed un trans che cercano senza remore una loro strada per il mondo che gliene offre solo una, di notte, da sole, accanto ad un lampione, ad offrire il loro dolore per il piacere dell’altro, il cliente. Innominato, se non tramite l’organo con cui si presenta e finisce la sua esistenza, è il vero attore che muove le fila delle pulle fin dall’infanzia: quell’infanzia che, racconta Rosi (Sandro Maria Campagna), l’ha consegnata a dodici anni dalle mani della madre al primo violentatore, che è disseminata di ciò che non traspare dalle cronache quotidiane che le vedono protagoniste, soltanto merce di scambio e non umana.
Uno spettacolo corrosivo questo di Emma Dante, dove la critica sociale investe tutto il virtuale circo della televisione, dai programmi reality che di reale hanno solo il titolo, fino alla sequela di notizie del telegiornale che, invece di chiedersi come mai un uomo preferisca il sesso mercenario al posto di un rapporto d’amore, fissa l’obiettivo sulla fine: poco fatale, molto prossima o già avvenuta. La pulla muore al posto del cliente che, dentro di sé è già morto perché, come affermano i greci e spiega Umberto Galimberti, senza psiché – ovvero anima – il corpo è solo un corpo morto. Clienti come automi quindi ho immaginato, quanto le pulle che, in preda a deliri convulsivi, si atteggiano a bambole rotte, distrutte dall’assenza di psiché dell’altro.
Eppure l’ossessione del corpo – antierotico per eccellenza perché non amato – è l’argomento principale delle pulle: l’operazione per cambiarlo, che avverrà invece attraverso l’infusione dell’anima femminile nelle pulle – la psiché appunto – è totalizzante. La lunga tovaglia sulla quale Moira (Antonio Puccia) mangia per poi sputare, rende vivo quell’organicismo che lo sottende: il corpo è un organo, staccato da me, non fa parte di me, io lo regolo e lo sottometto, senza amarlo. Rifiuto della vita, come rifiuto del pane, il primo alimento per antonomasia, gli scarti che spuntano dalle bocche voraci ricoprendo la tavola, sono l’esibizione dell’ovvia tragedia che condanna chi è perseguitato ad essere il “punitore di sé stesso”, L'Héautontimorouménos di Charles Baudelaire (Les Fleurs du mal, 1857, trad. mia) cantato da Diamanda Galàs in The Saint of the Pit (trilogia The Masque of the Red Death - vi è anche una versione di Léo Ferrè della stessa poesia nell'album dedicato a Baudelaire Les Fleurs du Mal suite et fin), colui che è "la piaga ed il suo coltello", leggiamo le due ultime strofe:
Sono la piaga e il coltello!
Sono lo schiaffo e la guancia!
Sono le membra e la ruota,
la vittima e il carnefice!
Sono del mio cuore il vampiro,
- uno di quei grandi abbandonati,
al riso eterno condannati
che più non possono sorridere!
(Versione orig.: Je suis la plaie et le couteau!/ Je suis le soufflet et la joue!/ Je suis les membres et la roue,/Et la victime et le bourreau!/Je suis de mon coeur le vampire,/— Un de ces grands abandonnés/Au rire éternel condamnés/Et qui ne peuvent plus sourire!)
Il sorriso di Hugo in L’uomo che ride (L'homme qui rit, 1869) – una piaga nel suo volto che lo costringe ad apparire così agli altri -, è la stessa di cui soffrono le pulle: da Ata (Ersilia Lombardo) a Rosi (Sandro Maria Campagna), tutte condannate dagli uomini stessi che ne abusano, gli stessi che magari dicono messa o prediche da qualche altro pulpito, epperò rifiutano di dar loro una statura morale. La frase “Nessuno sa quello che pensa Dio” è chiara: gli uomini, sebbene alcuni credano di rappresentarlo, sono e rimangono uomini, soprattutto poi se non perdonano o non comprendono. Ciò che invece esiste è un dato di fatto e, - Dio o non Dio, questa è una faccenda di fede, intima quindi -, gli esseri umani hanno tutti a prescindere una statura morale, che non perdono di certo perché violentati o sopraffatti, piuttosto la acquistano meritatamente in un paese che dichiara “Maria santa e vergine”, e di notte s'incontra con le pulle.
Sono in attesa – come insegna Erich Fromm in tutta la sua opera “fin troppo umana” come quella di Nietzsche, in questo scorcio di secolo annichilente – delle giustificazioni dei clienti, dei padri, delle madri, di tutti i parenti, o non parenti, di persone di chiesa, di politici -, che hanno permesso che degli esseri umani – le pulle tutte – venissero degradati e giudicati senza aprire un processo ai colpevoli, e non solo di istanza morale.
Chi si riduce a scambiare il denaro per qualcosa che non è acquisibile tramite moneta, non sta solo distruggendo l’entità umana, la parte più fragile e più intima di un essere umano, ma si sta illudendo con la peggiore delle sopraffazioni: sta insultando prima di tutto Dio e la sua opera di creazione, e non c’è nulla che lo possa salvare perché questo non dipende dalla fede, ma dalla realtà.
Ed ora riportiamo le pulle a casa, fra i loro cari, dove, finalmente, dopo il matrimonio, avranno pace, e si relazioneranno come meglio potranno, come più preferiranno, nel modo in cui sapranno.