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Festival del Cinema di Roma 2011. The Lady. La grazia della lotta
Il flm di apertura nella Selezione Ufficiale ma Fuori Concorso di Luc Besson, ovvero The lady, è dedicato al Nobel per la Pace (1991) Aung San Suu Kyi (nata a Rangoon nel 1945: oggi Rangoon - anglicizzazione del nome locale – è Yangon, dopo aver riacquistato il suo nome originale), la figlia del Generale Aung San, ucciso nel 1947 da rivali politici secondo dati storici (nel film è un golpe militare che in realtà ci sarà nel 1962 ad opera di Ne Win) dopo aver negoziato l'indipendenza dal Regno Unito ottenuta l'anno seguente. Il padre di Aung San Suu Kyi perse la vita perchè stava tentando di avviare il processo di democratizzazione nel suo paese, la Birmania/Myanmar, oggi ufficialmente la Repubblica dell'Unione della Birmania.
Con Michelle Yeoh nella parte principale (ex ballerina internazionale poi avviata alla carriera di attrice) e David Thewlis nella parte del marito Michael (chiamato nel film quasi sempre Mikey dalla moglie) professore di cultura tibetana ad Oxford, il film ha un fascino attoriale già di per sé di elevato livello. Tutto inizia con Suu piccola, come la chiamerà Michael per tutto il film (il patronimico proviene dalla nonna), l'assassinio del Generale ed il cruento colpo di stato: fino al 1988 Suu non rimetterà piede in Birmania ma, da quel momento in poi, s'impegnerà politicamente per libere elezioni fondando la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) che, nonostante abbia stravinto le elezioni nel 1990, la giunta militare al potere dal 1962 non accetta, arrestando lei e molti altri. Le repressioni colpiscono sia gli studenti (dal 1988 – ma anche negli anni '70 ed in seguito alla presa del potere) sia i monaci birmani che protestano nel 2007.
In fondo però il film, la cui caratura ruota tutta intorno alla grazia della protagonista che si barcamena tra figli, impegno politico e due stati, racconta, coinvolgendo il pubblico, l'estrema fragilità e potenza dell'amore che questa donna dal coraggio eccezionale – il suo avanzare davanti alle armi puntate contro di lei dall'esercito ne dà un saggio palpabile – trasfonde in ogni suo atto. Dalla carezza al figlio al fervido abbraccio per il marito, all'esplosione di entusiasmo per la concreta possibilità di lottare – mettendo a repentaglio la sua vita anche con uno sciopero della fame - Aung San Suu Kyi riesce a veicolare dentro di noi quello stesso inarrestabile vigore che risiede tuttora nella memoria di Gandhi, e che l'ha ispirata in ogni suo gesto.
Una resistenza che le farà sopportare la lontananza dal marito – cui è stato vietato di rientrare in Birmania nel 1995 per convincerla ad andarsene – nel momento del suo trapasso, come dai due figli, senza mai far vacillare quella volontà che la sostiene nella sua battaglia. Quindici anni di arresti domiciliari, ora in semilibertà dal 2010, non le hanno sottratto la capacità di toccare i tasti del pianoforte con la leggiadria che prospetta l'armonico e celestiale Canone in re maggiore di Johann Pachelbel, con cui risponde ai soldati, chiusi nelle tenebre dell'ignoranza, appena sfiorati dalla dolcezza delle tre note che fanno risplendere la Grazia.