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Festival Orizzonti 2014. La profezia circolare di Pirandello
A chiudere metaforicamente e non il Festival Orizzonti 2014 “Tra mito e favola”, guidato impressivamente dal direttore artistico Andrea Cigni, la chiosa stessa che Pirandello ha dato, nolente, alla sua vita per il teatro: I giganti della montagna Atto I, nella messinscena di Fortebraccio Teatro di Roberto Latini, in prima nazionale. Un'opera che si riconnette anche al prossimo Festival Orizzonti 2015, intitolato al Mediterraneo, e che riesumerà quelle radici storico-artistiche che sono alla base della nostra cultura greco-latina, sopravvenuta agli Etruschi che a Chiusi sono ben rappresentati dalla Sfinge, simbolo e premio del Festival, quest'anno andato ad Ascanio Celestini, fattosi interprete della voce narrante di “Pierino e il Lupo” di Prokofiev.
Tra Mito e favola si situano anche i costumi della Sartoria Farani che ci hanno accolti nel centrale Museo Etrusco di fronte a Piazza Duomo, dove questa mostra straordinaria illustra l'ultimo mezzo secolo del '900 ed il primo del 2000, su palcoscenici di teatri e cinema: dal Satyricon di Fellini a Dune di Lynch, all'Oro del Reno wagneriano con la regia di De Bosio, fino a giungere al Robin Hood di Ridley Scott. Tra i ricchi broccati e velluti ci si può addentrare fino al 31 agosto, circondati da una magnifica Sfinge funeraria del VI secolo prima di Cristo e dall'alcova affrescata della Tomba delle Tassinaie (170-150 A.C.).
“Io non ho paura”: quest'urlo roboante risuona dall'inizio dal palcoscenico del Chiostro di San Francesco, perfettamente trasfigurato in una scena dell'altrove: un Altrove distante che si fa animato, Roberto Latini, in questo humus pirandelliano di I giganti della montagna, si muove ritmicamente potente sulle suggestioni à loop della musica di Gianluca Misiti, ergendosi come una specie di demone, un Gigante ed un fantasma come quelli del titolo originario del primo atto qui rappresentato del Mito: I fantasmi. Tratto come altri dalle Novelle per un anno, in particolare Lo storno e l'Angelo Centuno (1910), è un testo che di per sé crea i personaggi sul palco, i Giganti invisibili sono la terribilità della creazione immaginaria stessa che prescinde dalla fantasia del poeta, non solo, del pubblico che guarda, quel “Tu” onnipresente di Barthes che instaura un dialogo di finzione scenica che diviene Realtà per mezzo del palco. L'illusione che costringe Ilse Pausen a recitare un'opera perché l'opera venga creata (scritta dal proprio autore), che dipinge nell'ideale della donna quello dell'arte (Pirandello con Marta Abba e non solo): quel “crepuscolo chiaroveggente” che Federica Fracassi interpreta come Fanny Brown nei dipinti di Dante Gabriel Rossetti, con i capelli scompigliati dall'improvviso e lacerante abbandono e le vesti di broccato pregne della sabbia-polvere di un tempo che fu.
Le bolle di sapone divengono stelle cadenti nelle luci di Max Mugnai mentre raggiungono un pubblico rabbrividito nella sua ora consapevole cognizione di una caducità che tocca financo la sfera del sogno, e “miete” il pensiero raffigurato come da Rodin ignudo sul suo busto plastico e le sue membra marmoreamente delineate dai riflessi delle ombre, che offuscano la luce sui campi di grano all'orizzonte.
Passi pesanti come macigni battono il sentiero aldilà del telo nero e raccontano di apocalissi e meretrici dai capelli rossi: la Contessa diventa materia originaria nelle parole e nel dialogo con Crotone, che ad un certo punto la guida in quelle “rovine circolari” che permenao i testi di Pirandello come di Borges, dove il dio sconosciuto anela di trovare un proprio profeta.