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Festival Orizzonti 2014. La macchia lunare di Pierrot
Dalla Luna di Pierrot alla verve di Gianni Schicchi: il Festival Orizzonti di Chiusi ha offerto al pubblico lo spettacolo vincitore del Concorso di Allestimento della Fondazione Orizzonte il 2 e 4 agosto in Piazza Duomo, in un dittico che univa Arnold Schönberg e Giacomo Puccini. Con la regia di Roberto Catalano; le scene di Emanuele Sinisi ed i costumi di Serena Saporito; l'Orchestra da Camera del Maggio Musicale Fiorentino era guidata da Sergio Alapont.
Scritto a Berlino nel 1912 per la cantante di cabaret Albertine Zehme, il Pierrot Lunaire di Schönberg si compone di un ciclo di ventuno melologhi sul testo del poeta simbolista belga Albert Giraud del 1884 e tradotti in tedesco da Otto Erich Hartleben (1893). L'ensemble per l'esecuzione è formato da pianoforte, clarinetto in La o clarinetto in basso Si bemolle, flauto o ottavino, violino o viola, violoncello; per quanto riguarda la voce, che deve essere femminile, è impostata sullo Sprechgesang, il cantato-recitato tipicamente di matrice teutonica.
Caratteristica opera della fase atonale del compositore austriaco, o meglio “politonale” o “pantonale” come direbbe lui, e chiarisce nel suo Manuale di Armonia del 1911, in quanto “atonale” non può corrispondere assolutamente all'essenza del suono: quindi si produrrebbe un'incongruenza di termini.
Il Pierrot Lunaire è diviso in tre parti: nella prima parte (brani 1-7), Pierrot si presenta “Ebbro di luna” (Mondestrunken) come afferma il titolo della prima lirica, adducendo al vino – ricordiamo l'intera sezione di Les fleurs du mal dedicata a Le vin di Baudelaire, capostipite del simbolismo francese – il potere di renderlo meditativo facendogli volgere lo sguardo al cielo:
Vino, che si beve con gli occhi,
mesce, di notte, la luna a fiotti.
Ed il poeta, che a meditare incita,
della santa bevanda tutto si inebria,
e, in estasi, volge il capo al cielo.
(orig. Mondestrunken: Den Wein, den man mit Augen trinkt,/Gießt Nachts der Mond in Wogen nieder./Der Dichter, den die Andacht treibt,/Berauscht sich an dem heilgen Tranke,/Gen Himmel wendet er verzückt.)
Il poeta Pierrot, interpretato perfettamente da Laura Catrani che, con un caschetto nero ebano e la casacca a bottoni grandi e neri su fondo bianco, ci pare l'esatto emblema del poeta sofferente, romantico e delirante, è incantato dalle sue visioni che sorgono in un luogo imprecisato e bagnato dall'atmosfera lunare, spiccatamente decadente e simbolista. I titoli rievocano personaggi del carnevale veneziano come Colombina, di cui si mostra innamorato, rassegnato ad una metaforica sfioritura; cito: “i pallidi fiori del chiaro di luna,/le candide meravigliose rose”.
L'episodio del Dandy rievoca Oscar Wilde come D'Annunzio quanto Huysmans e l'arcipelago degli artisti decadenti; si noti che il Vate aveva inserito Bergamo ne Le città del silenzio, nella raccolta Elettra del 1903, e qui si parla di “Dandy di Bergamo”. E La pallida lavandaia che segue è sempre lei, la Luna: “E la dolce fanciulla del cielo, teneramente carezzata dai rami, distende sopra i prati oscuri i panni di lino intessuti di luce”. Con il Valzer di Chopin tutto inizia a colorarsi di una tinta rosso sangue: “Come una pallida goccia di sangue (…) Ardente e gioioso, dolce e struggente, lugubre e melanconico valzer” mentre la Madonna diventa “Madre di tutti i dolori, sull'altare dei miei versi”, il poeta Pierrot comincia a discendere sempre più nel delirio. La musica e lo Sprechgesang fin dall'inizio lo mostrano; Catrani intona e poi lascia la nota facendola cadere vibrante nell'aria, mentre la musica quasi si scontra sulle note del parlato recitato, facendosi beffe sonore del lamento del poeta.
Nella seconda parte (brani 8-14), cadiamo nella follia in cui Pierrot si immagina assassino di Cassandro, a scoperchiare e dissacrare tombe, e l'eresia si esprime nella Messa di sangue (Rote Messe), non prima di una passacaglia dedicata alla Notte; di una Preghiera di Pierrot per aver perduto il riso; di una Rapina di “rubini sanguigni” nelle cripte, che paralizzano Pierrot e la sua banda di balordi. La Canzone della forca e la Decapitazione si notano sprattutto per i versi del secondo: “La luna, scimitarra splendente, adagiata su un nero cuscino di seta” è un'immagine ipnotica e suadente, oltreché tenebrosa. Le Croci ricordano la figura de L'Albatros di Baudelaire: il poeta che rimane a terra per la pesantezza delle sue ali, qui diventa poeta dissanguato: “Sante croci sono i versi,su cui muti poeti si dissanguano, colpiti alla cieca dallo svolazzante stormo spettrale degli avvoltoi”.
L'”ostia di sangue” ci appare un simbolo della completa disperazione per una figura cristica anch'essa annientata nel generale “gemere” del testo, ulteriormente estremizzato dalla traduzione di Hartleben. Visivamente, la camicia di forza che indossa la Catrani dà l'esatta dimensione emotiva del testo, mentre il piatto su cui disegna col rossetto è parodicamente grottesco.
Nella terza parte (brani 15 – 21), il corrosivo simbolismo tedesco, che si enuclea dalle parole del testo, si mitiga un poco, per far posto al lato più buffonesco e nostalgico di Pierrot: inizia con Nostalgia e prosegue con Una canagliata, ed il “sospiro cristallino” della prima si muta in una alquanto grottesca fumata sulla testa di Cassandro immaginata. La Parodia riguarda una vecchia che lavora a maglia e che ama “soffrendo” Pierrot; ed è invece sublime la passeggiata di Pierrot con Una macchia di luna: “Con una macchia bianca della luna lucente sul dorso del suo nero mantello”, mentre poco dopo suona la Serenata “sulla “testa calva di Cassandro” con la sua viola. Per fortuna Pierrot può andar via da qui e far ritorno a casa: “Timone è il raggio di luna, per barca una ninfea. A Bergamo, verso la terra natia”, lì troverà l'“antico profumo del tempo delle fiabe, ancora inebri i miei sensi” e finalmente si ricongiunge alla gioia e al sole. Lieto alla fine delle gioie fin ad allora disprezzate.
Una lode piena a Laura Catrani ed una adeguata direzione per Alapont, più leggera e briosa come vuole nel secondo episodio del dittico, ovvero il vivace Gianni Schicchi di Puccini, di cui era più curato l'allestimento, più ricco anche di voci, tra cui diamo una nota di merito al protagonista Andrea Porta ed anche a Filippo Adami (Rinuccio, anche se talvolta si fletteva), e alla Lauretta di Lavinia Bini. Una verve clamorosa per tutto lo spettacolo alla regia, ben dosata, di Roberto Catalano.