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La Grande Bellezza. La serena rimeditazione di un viaggio emozionale
Le considerazioni che seguono partono dall'occasione di aver rivisto La grande bellezza di Paolo Sorrentino, film insignito dal premio Oscar, e ora riproposto nella sale a tre anni dalla sua prima uscita, in una versione integrale, con 30 minuti di scene inedite, amputate all'epoca della sua prima apparizione nelle sale per soli tre giorni, 27, 28 e 29 giugno.
Chiunque voglia interpretare un'opera d'arte – a prescindere da quello che è il suo ventaglio di riferimenti culturali, il grado di sensibilita e il correlato bagaglio di strumenti rabdomantici che ha in dotazione – è per prima cosa visitato dalla necessità di misurare la distanza giusta tra sé e l'opera in esame, in modo che questa, rispetto all'atto che la svela, non sia né troppo distante né troppo vicina. Le emozioni hanno bisogno di sedimentarsi nelle stanze dei nostri pensieri; occorre dunque quella che il grande poeta inglese William Wordsworth chiamava una «recollection in tranqullity», la serena rimeditazione di un viaggio emozionale, il dono che le grandi opere d'arte elargiscono agli uomini.
Jep Gambardella – interpretato superbamente da Tony Servillo - è quello che si dice un dandy: uno scrittore e giornalista di 65 anni, autore di un unico libro pubblicato quando aveva vent'anni, quando la vita coincide con l'attesa di sé stessa, e il futuro altro non è che una luminosa incertezza.
Questo signore, vestito sempre con giacche di altissima qualità sartoriale (fornite alla produzione dal grande sarto Cesare Attolini), è un inerte spettatore della propria e dell'altrui esistenza, che osserva con remoto, snobistico disincanto. Vive una vita postuma a sé stessa; trascorre le proprie giornate trascinandosi da una festa all'altra, in compagnia di dame dell'alta società, parvenu, nobili decaduti, alti prelati, artisti veri o presunti, con i quali tesse trame di rapporti inconsistenti.
Il suo peregrinare nelle terrazze e negli attici di Roma, che riservano a coloro che le frequentano alcune fra le più belle sorsate di mondo che gli occhi di un uomo possano avere in dono, ha dei connotati quasi danteschi: è un periplo di cerchi e gironi infernali popolati da gente annegata nel proprio denaro, naufragata nel mare (e nel male) di vivere, incolpevoli esploratori dell'esistenza, detenuti sui quali pesa la condanna di esistere.
Il nulla ha tra i suoi charmes quello di confondersi a meraviglia con la vita. Aveva scritto un poeta del '600, Giacomo Lubrano: «Ogni giorno è un funeral de gli anni», riorchestrando – con tipica arguzia barocca – il grande tema biblico (e classico. Orazio: «pulvis et umbra sumus») della Vanitas Vanitatum, dell'inutilità di vivere.
È il medesimo tema che torna, declinato con un sorriso mesto e gentile, in uno dei più bei poeti (malgrado sia poco conosciuto) del Novecento italiano, Nino Pedretti, autore di questa splendida lirica: «Che abbiamo vissuto / che toccavamo la terra coi piedi / che andavano allegri / non lo saprà nessuno. / Che guardavamo il mare / dai finestrini dei treni / non lo saprà nessuno. / Che respiravamo l'aria che si posa / sulle sedie dei bar / non lo saprà nessuno. / Siamo stati sulla terrazza della vita / fintanto che sono arrivati gli altri».
Le terrazze della vita nelle quali sciama l'umanità sulla quale il regista apre lo sguardo sono quelle del Gianicolo e degli angoli più belli di Roma, che diventano le tante stazioni di una catabasi nell'inferno della mondanità; un descensus Inferi accompagnato e supportato da un continuo – opulentissimo - rampollare di virtuosismi registici, in una collana ininterrotta di emozioni visive, che sfiorano volentieri la gratuità autosufficiente (è lo stilema che sovrabbonderà nel suo meraviglioso film successivo Youth), disegnando però piste subliminali di significato: sono tanti coriandoli di realtà lanciati per celebrare l'ininterrotta festa di vivere, che è piuttosto un'allegria di naufragi.
Per quel che riguarda le fonti, è stato fatto, in maniera fin troppo tempestiva, il nome di Fellini, riconoscendo ne La dolce vita il grande archetipo di Sorrentino, il quale altro non avrebbe fatto se non aggiornare ai nostri anni quello che Fellini aveva registrato nella Roma della fine degli anni '50.
L'accostamento è pertinente, ma rischia di sottovalutare la ricchezza di fisionomie della musa sorrentiniana. La Grande Bellezza è una delle più grandi indagini artistiche che siano mai state compiute sulla mondanità, e magari può favorire in qualche spettatore amante della letteratura il ricordo di uno dei più grandi libri del Novecento, La Recherche du temps perdu di Marcel Proust, che proprio alla ricognizione dei codici e dei passatempi dell'alta società dedica almeno due libri (Du côté de chez Swann e Sodome et Gomorrhe).
Jep Gambardella, mentre osserva questo continuo funerale dei giorni e degli anni che è il vivere, mentre sgrana il rosario delle proprie ore circondato dagli uomini che – cenciose apparizioni nella gran luce del nulla – condividono con lui il temporaneo invito nella terrazza della vita, è visitato a più riprese dal ricordo di un suo giovanile, incompiuto amore, l'unico, probabilmente, della sua vita.
Il ricordo lo porterà a rivedere il luogo che fu teatro di questa fioritura di promesse e sogni giovanili (rivisitate ex post con una consapevolezza quasi leopardiana: O Natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor?) , risvegliando in lui – insieme alle memorie del tempo innamorato – il desiderio di scrivere (e qui la filigrana proustiana è fin troppo evidente); scrivere una nuova opera alla quale lasciare in custodia la sostanza autentica della propria umanità, in modo da redimere la funerea, rutilante, carnevalata del vivere.