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Hannah Arendt. La mediocrità del male
Un film su Hannah Arendt (Linden-Hannover, 1906-New York, 1975), una delle maggiori pensatrici e filosofe che abbia mai scritto così approfonditamente sul totalitarismo (The Origins of Totalitarianism, 1951), non solo sul nazismo in quanto ebrea emigrata e testimone della Shoah, è uno dei compiti più seri che ci si possa conferire alla luce anche della controversa storia e rapporto di Arendt con Israele ed il suo popolo. Margarethe von Trotta ha quindi messo alla prova Barbara Sukowa in una parte e con una sceneggiatura, scritta a tre mani con Pam Katz e Caroline Champetier, di una rilevanza storica che ancora oggi apre degli squarci sulle relazioni instaurate tra Israele, il popolo ebraico ed una forma di pensiero “liberissimo” come quello di Hannah Arendt.
Tutto parte dal processo ad Adolf Eichmann, capo dell'Unità IV, che si prendeva cura di organizzare il trasferimento degli ebrei verso i campi di concentramento tedeschi e dei Paesi occupati. Eichmann fu rapito nel 1960 in Argentina dal servizio segreto israeliano, noto come Mossad: un anno dopo, fu istruito il famoso Processo Eichmann cui partecipò Hannah Arendt come inviata di The New Yorker, e che le fece produrre cinque lunghi articoli nel 1963, che formano il primo corpus della sua opera più celebre, La banalità del male (Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil 1963; 1965; tit. ita. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964), e che continuò, col tema della “substanziazione del male”, ad ossessionarla per tutta la vita.
L'esistenza di una pensatrice non è quella di chiunque, soprattutto se di questa levatura: e si deve da subito dire che l'interpretazione di Barbara Sukowa di un personaggio così controverso, perché così poco compreso nella sua inalterata coerenza e linearità, è straordinaria. Non ha una sbavatura, nemmeno nei momenti più difficili ed anche in quelli sentimentali con “Stups”, ovvero Heinrich Blücher (Axel Milberg), il suo secondo marito dopo il filosofo Günther Anders, giunto quest'ultimo dopo la postadolescenziale relazione con Martin Heidegger, che difese per tutta la vita, per il suo valore come filosofo.
Una nota di merito oltre la caratura d'eccellenza di tutto il film va in particolare alla regista Margarethe von Trotta che, non solo ha scelto un personaggio tuttora scomodo, visto che La banalità del male, seguito dell'articolo incriminato dai sionisti, ha avuto il visto censura in Israele solo nel 2002, dove sono stati fortemente osteggiati sia la Arendt sia il suo pensiero a cominciare dalle minacce del Mossad sotto Ben Gurion contro la pubblicazione dell'articolo. Tutto questo perché l'articolo spiegava chiaramente come “il numero delle vittime ebree sarebbe stato quasi sicuramente minore se i capi ebrei non avessero aiutato l'organizzazione del Reparto IV di Eichmann in senso logistico”; pur avendo degli scopi positivi, il loro comportamento si è dimostrato letale. Questo uno dei punti contestati. L'altro riguarda Eichmann e la sua dimensione di mediocre apparato burocratico e senza coscienza al servizio del nazismo: senza porsi domande e senza mentire a sé stesso neppure durante il processo, Eichmann, con il suo comportamento, dimostra in pieno quanto la mera esecuzione di ordini “inumani” e impietosi verso “altri esseri umani” (è fondamentale ricordare come sia la Arendt sia il Processo di Norimberga, hanno condannato il nazismo come “Crimine contro l'umanità” e non una razza particolare di persone) sia la vera matrice del male.
L'assenza di coscienza e quindi di pensiero dietro i propri atti è in fondo ciò che ci relega ad essere spettatori passivi e se attivi, conniventi con “l'estremità del male”, nelle parole di Hannah Arendt, che afferma anche: “Non esiste un male radicale, solo il bene è radicale; il male è estremo o lo diventa, nel momento in cui si manifesta l'assenza del pensiero, perchè è una caratteristica propriamente umana il pensare”. Eichmann non pensa: esegue. Questo si vede soprattutto dallo sguardo freddo e assente alla propria coscienza ed “intenzionalità” (lui asserisce infatti che non aveva nulla contro gli ebrei, semplicemente ha eseguito gli ordini), nelle riprese del processo che intarsiano il film appositamente scelte per avere un memento reale. Ed è il gelo assoluto di Eichmann, la sua assenza di giudizio e di permeanza e presenza personale, che ghiaccia e che rappresenta in toto quella “burocrazia” senza occhi né cuore, tanto ben rappresentata anche in Il Processo di Kafka: quell’imperscrutabilità della Legge che condanna tramite l'occhio cieco e la mediocrità che esegue.