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Intervista ad Alvin Curran. Prospettive della musica contemporanea. Parte prima
Incontriamo Alvin Curran in un'umida serata di fine maggio 2013, il 24, nei pressi del Museo Casa Scelsi a Roma, dove egli si appresta a presentare una serata musicale nella quale il pianista Bruce Brubaker eseguirà un suo pezzo (Hope Street Tunnel Blues, 1983), insieme con altri brani di un repertorio minimalista e post-minimalista (dalle celebri Mad Rush ed Études 4 & 5 di Philip Glass, fino a Orizzonte di Missy Mazzoli, passando per il seminale brano di Giacinto Scelsi Quattro illustrazioni).
Curran risponde alle nostre domande in un'atmosfera distesa, chiacchierando un po' in inglese, un po' in un ottimo italiano, seduto in un'incantevole sorta di lounge bar non distante dal Teatro di Marcello. Nato nel 1938 a Providence, nel Rhode Island (la stessa città che diede i suoi natali a Howard Phillips Lovecraft e a Cormac McCarthy), Curran è una delle figure più interessanti della musica contemporanea, incline a sperimentare le più svariate possibilità di composizione musicale, fin dall'età di cinque anni, quando prese le sue prime lezioni di piano, passando poi al jazz e alla musica cosiddetta "colta", divenendo allievo di Elliott Carter, che lo portò con sé a Berlino, con una borsa di studio, come assistente. Curran in seguito, insofferente dell'ambiente accademico, si stabilì in Italia, in particolare a Roma, dove c'era una vivacissima situazione musicale (con Nuova consonanza di Franco Evangelisti, l’Accademia americana, la musica elettronica) e dove nel 1966 fondò, con Richard Teitelbaum, Steve Lacy, Franco Cataldi, Allan Bryant, Carol Plantamura, Ivan Vandore, Jon Phetteplace e Fredric Rzewsky, il gruppo sperimentale Musica Elettronica Viva.
Alvin Curran, Lei è tra i compositori più significativi della seconda metà del XX secolo, e il suo nome compare spesso nei cataloghi up-to-date di dischi di musica classica. Va però detto che la cosiddetta musica d'arte nel Novecento ha intrapreso un percorso diretto verso un intellettualismo esasperato, che l’ha spesso portata lontana dal grande pubblico. Lei è ampiamente considerato uno dei pochi compositori contemporanei che sanno come combinare il rigore compositivo con una certa dose di accessibilità. È d'accordo con questo giudizio? E come pensa che si possa comporre in modo rigoroso senza allontanarsi dal gusto generale del pubblico?
Devo ridere? Appartengo sicuramente al XX secolo, ma non so se l'etichetta "significativo" mi si addica, dato che non amo troppo queste qualificazioni.
Alla prima domanda io rispondo dicendo che sono d’accordo per il 100 o 200 per cento. L’iperintellettualismo è un tratto caratteristico che noi abbiamo sperimentato, io direi approssimativamente, dagli anni ’10 del secolo scorso, dai tempi di Schönberg, quando questi sviluppò l’idea della musica dodecafonica. La musica europea classica è diventata un segno di appartenenza dell’élite culturale e a livello sociale dell'aristocrazia e della borghesia dopo la rivoluzione francese.
La musica "classica" dai tempi di Mozart fino ai tempi di Gustav Mahler, Richard Strauss, Arnold Schönberg e Alban Berg è diventata un punto di riferimento multiplo. Essa ha bisogno di un pubblico, che sia anche meditativo. Ma non voglio darvi una lezione di storia della musica. Bisogna sottolineare che la musica antecedente a Schönberg, al dadaismo, al futurismo, da Bach a Beethoven, è ancora viva. Invece, ai tempi di Beethoven probabilmente nessuno ascoltava Bach e ai tempi di Mozart nessuno ascoltava Hildegard von Bingen. Tutti ascoltavano la musica del loro tempo. C’è una sovrapposizione tra ciò che si ascolta e il contemporaneo. Tutto è contemporaneo. La preistoria è attualissima.
Questa frase somiglia a un’espressione del filosofo italiano Benedetto Croce, che pure non amava la musica, a differenza del suo contemporaneo tedesco Theodor W. Adorno, e sosteneva che la storia è sempre storia contemporanea.
Sono d’accordissimo con la frase di Croce. All’inizio del XX secolo, la cesura rispetto alla musica del passato, con l’inizio del cosiddetto modernismo, si risolse nel mettere in questione tonalità, durata, densità, armonia, melodia: c’è quasi uno stato di paura che subentra, come quando si affronta un atto di terrorismo. L’ordine e la stabilità classici, intesi come qualcosa di definibile e descrivibile, vengono messi in questione.
Il dadaismo fu troppo radicale, il futurismo troppo legato alla politica, alla sinistra in URSS e alla destra in Italia. Forse il futurismo fu concepito per épater les bourgeois (scioccare i borghesi) piuttosto che per sviluppare nuove idee.
Sono d’accordo. Molti di costoro volevano azzerare tutto e fare tabula rasa. Ma ora non vorrei addentrarmi anche nei particolari politici. Oggi ogni tipo di musica può essere ascoltata per sempre e riprodotta, almeno a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. Si pensi anche alla sua commercializzazione e a concetti come popular music, world music, musica etnica.
Come una volta disse il famoso filosofo tedesco Walter Benjamin, noi viviamo nell’epoca della riproducibilità tecnica. Pertanto ogni tipo di musica può essere riprodotto e ogni tipo di musica, anche se ho l’impressione che non sempre possiamo apprezzare pienamente il cosiddetto face value, il valore nominale, per così dire, di un’esecuzione registrata quando i mezzi tecnici non erano all’altezza e sofisticati come quelli di oggi. Ad esempio, le esecuzioni di Wilhelm Furtwängler non sono altrettanto udibili di quelle di Herbert von Karajan, a causa della qualità tecnica delle registrazioni e della mancanza dei registratori digitali.
Non sono d’accordo: la qualità delle registrazioni negli anni '50 era già eccezionalmente buona, e il digitale ha soltanto migliorato il rapporto segnale/rumore. Ma ora vorrei sottolineare che non sono così interessato ai diversi interpreti, che si chiamino Furtwängler, Karajan o Bernstein, anche se non nego la qualità delle loro esecuzioni. Ma quando guardo a queste esecuzioni trovo una sorta di porta chiusa, di muro. Oggi anche musicisti amatori, come mia moglie, riescono a essere professionali.
Ho ascoltato una bella esecuzione del suo ensemble a un festival del 2006.
Si tratta del Donau-Festival, dove nel 2006 abbiamo eseguito “Oh Brass on the Grass Alas” nelle Blaskapellen di Donaueschingen. Tra gli esecutori c’erano 300 musicisti dilettanti provenienti da varie fanfare di quell’area. A questo festival, fondato tra gli altri da Kurt Weill nel 1921 e che è forse il più antico festival di musica d’avanguardia nel mondo, parteciparono Ianis Xenakis, Karl-Heinz Stockhausen, Pierre Boulez, György Ligeti e vari altri musicisti.
Comunque anche i non professionisti suonavano bene, perché c’è una tradizione nell’area austro-tedesca, ben diversa da quella delle bande di paese in altre nazioni: erano 300 musicisti che andavano dall’età di 8 anni (trombonista e clarinettista) fino a 85 (un suonatore di basso tuba). Tutti questi concetti sono tipici dell’Ottocento. Per esempio stasera Bruce Brubaker (da non confondere con il jazzista Dave Brubeck) suonerà un pezzo mio, nella stessa maniera in cui lo suonerei io, forse anche meglio. Questa spaccatura (rift) nella musica del XX secolo fa parte di un’eredità culturale che non cambierà mai. La tesi è che la musica classica sia qui e tutto il resto sia discutibile: non trovo possibile questa sorta di “razzismo culturale”. Il mondo globalizzato di oggi non la pensa così. E tra l’altro la musica classica sta per uscire economicamente dalla nostra presenza. Nessuno può reggere economicamente queste orchestre perché non c’è più nuova musica scritta per loro. In Italia hanno soppresso le orchestre della RAI.
In una città come Monaco di Baviera le orchestre vengono finanziate dallla BMW e da altre aziende, ma fino a che esse vorranno...
Io vengo finanziato fino al 2015 per celebrare la fine della Südwestfunk Orchestra di Baden Baden, simbolo della progressività e del contemporaneo in Germania. Ora verrà fusa con un’analoga orchestra di Stoccarda, perdendo la propria identità.
Questa situazione storica ha posto un impedimento allo sviluppo naturale del contemporaneo, come invece accadde in altre epoche storiche europee. Noi andiamo avanti lo stesso: nessuno, ciononostante, ha impedito che la musica contemporanea in alcune situazioni possa svilupparsi in modo proficuo. Ma ci sono sempre problemi con il budget e con altre situazioni economiche: l’idea dominante è che si debba sempre supportare in primo luogo il teatro dell’opera e le orchestre che suonano il repertorio museale del passato. Abbiamo inventato però la nostra economia underground, con mezzi di fortuna. La generazione mia e di Philip Glass è riuscita, soprattutto negli USA, a svincolarsi dai finanziamenti statali. Le orchestre di Philip Glass e Steve Reich hanno fin dagli anni ’60 rinunciato ai fondi statali.