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IUC Kelemen Quartet. L'ossimoro misterico dei sei quartetti di Bartók
Il 4 febbraio scorso alla IUC, l'Istituzione Universitaria dei Concerti, sono stati eseguiti i sei quartetti di Béla Bartók, al completo, da un quartetto ungherese che dal 2010, anno della sua fondazione, miete successi in tutta Europa ed è stato in tour negli Stati Uniti alla Carnegie Hall di New York nello scorso anno. Il Kelemen Quartet ha vinto nel 2011 ex aequo il primo premio al Concorso Internazionale di Musica di Pechino e al Concorso Internazionale per Quartetto d'Archi "Sandor Vegh" di Budapest, e si è inoltre fregiato del Premio Borciani di Reggio Emilia nel 2014 che li ha fatti affermare ancora di più a livello internazionale.
Il giorno prima, venerdì 3 febbraio 2017 alle 18.30, li abbiamo incontrati insieme ai musicologi Antonio Rostagno e Daniele Mastrangelo, che li hanno presentati presso l'Accademia d'Ungheria in Palazzo Falconieri. I quattro componenti del quartetto sono il primo violino, nume e nome tutelare del gruppo, Barnabás Kelemen; la graziosa Katalin Kokas al secondo violino e viola; Homoki Gábor, secondo violino e viola; László Fenyő, al violoncello. Gli strumenti che suonano sono altrettanto preziosi: il primo violino Barnaás Kelemen suona un Guarneri del Gesú del 1742 denominato "ex-Dénes Kovács"; il secondo violino Katalin Kokas un Testore del 1698 (entrambi concessi in prestito dallo stato ungherese); Homoki Gábor suona uno Januarius Gagliano del 1771 e una viola Luigi Fabris del 1863; last but not least, il violoncellista László Fenyő su un Matteo Goffriller del 1695. Il CD di debutto è stato pubblicato da Hunnia nel 2012 con il Quartetto n. 5 di Bartók e il Quartetto delle dissonanze di Mozart; nel 2015 due CD, uno dedicato a Brahms e con il Quartetto n. 2 di Bartók, mentre l'altro è dedicato al Quartetto in re minore di Franz Schubert.
Il nome del quartetto proviene dal cognome del primo violino, Barnabás Kelemen, celebre per le sue “prime” dei concerti per violino di Ligeti e Schnittke, come di Gubaidulina e Kurtág. Ha suonato con la BBC Symphony, al Budapest Festival, con l'Estonian National Symphony, e la Deutsche Radio Philharmonie Saarbrücken, tra le altre. Katalin Kokas è professoressa di violino all'Accademia Liszt di Budapest dal 2004 ed è fondatrice e direttore artistico del Kaposvár International Chamber Music Festival nato nel 2010.
László Fenyő, classe 1975, nel 2004 ha vinto l'International Pablo Casals Contest di Kronberg, in Germania, entrando di rispetto nell'olimpo dei più rinomati violoncellisti del mondo. Homoki Gábor ha vinto lo Special Prize dell'Alíz Bárdos Violin Competition in Ungheria nel 2003, e nel 2007 i primi premi al Ferenc Halász Violin Competition, ed è direttore dell'orchestra da camera “Concerto Armonico Budapest”.
Il massimo etnomusicologo del Novecento, Béla Bartók (1881-1945), fu grande scopritore e ordinatore della musica arcaica, contadina, quelle radici popolari che si trovano fra le Danze rumene – d'altronde lui è nato a Nagyszentmiklós, nella regione ungherese del Banato (oggi Sânnicolau Mare, in Romania), e sappiamo quanto romeni e ungheresi si siano divisi territori e guerre, di cui si trovano i segni ancora oggi, a partire dai castelli di Vlad Tepeş e Mattia Corvino – e quelle ungheresi, a scoprire una radice comune prima e al di là dell'Impero venuto poi. L'enorme quantità di esperienze procurategli dai suoi studi, che datano dai primi anni a Budapest, intorno al 1902 – come ci illustra Daniele Mastrangelo – sono quella “valigia piena” che porterà con sé fino in America nel 1940, poco dopo la scrittura dell'ultimo dei suoi sei quartetti.
La capacità di Bartók di assimilare il sostrato folclorico nella modernità della resa del suo materiale, così attento anche alla parte razionale, quindi al “costrutto” delle composizioni, è straordinaria e notabile dal primo poema sinfonico Kossuth (1903), come nell'unica opera Il castello di Barbablù (1911) e nel celebre Il mandarino meraviglioso (1918-1924), e chiaramente ossatura tanto delle sue Danze rumene (1917) quanto di quelle transilvane (1931). La tradizione romantica da cui parte, Liszt e Wagner, ma anche il quartetto opera 131 di Beethoven, di cui si rileva la forte notazione contrappuntistica, situa Bartók sulla grande scia della composizione di quartetti, via via più composita e rada: dai 63 di Haydn, ai 23 di Mozart, ai 16 di Beethoven, ai 15 di Śostakovič; che per il Nostro saranno sei, di una densità inesauribile quanto i registri espressivi.
Lo studio di Bartók giunge fino in Algeria, per registrare i canti arabi, dimostrando come l'originarietà del canto asimmetrico – che pone una pausa tra una battuta ed un'altra – o meglio “primitivo” e naturale, che esce dal principio ordinativo della concatenazione simmetrica, è quanto di più connaturato all'uomo, come ci dimostra la performance insieme al pubblico del Prof. Rostagno e di seguito il Kelemen Quartet, interpretando lo Scherzo alla bulgarese del Quartetto n. 5, eseguito per intero nell'Aula Magna della IUC.
Per il concerto nell'Aula Magna de La Sapienza i sei quartetti sono stati divisi in tre serie di due ciascuna, iniziando dal primo quartetto Sz 40 del 1909 in tre movimenti, in cui è la viola, con i suoi toni seri e quasi lugubri, a disegnare uno strano motivo che però si sfibra subito in alture celesti dipinte dai due violini. Un'immensa, larga mestizia è lo sfondo che lo caratterizza acutamente: dopo un primo tempo lento e inondato di tristezza, il secondo si ravviva, poi sterza tanto da sembrare il ballo di una bambolina impazzita. Dopo i 28 minuti del primo, il Kelemen esegue il Quartetto n. 4 Sz 91 del 1928, che ci introduce alla struttura del quartetto “ad arco”, con due movimenti all'inizio e due alla fine che convergono verso quello centrale: così anche nel quartetto n. 5 Sz. 102 del 1934, in cui vi è uno Scherzo alla bulgarese nel mezzo. Il quartetto n. 4 si presenta come una specie di miasma sonoro in moto perpetuo, il secondo movimento in particolare, in sordina, che dona un effetto di straniamento allo scherzo, come in un rincorrersi di suoni. Il pizzicato di tutti gli archi come in una tarantella condurrà verso il terzo, in cui protagonista iniziale è il violoncello fino a giungere alla “musica della notte”, quel canto misterico che fa risuonare come degli usignoli tra l'Ade e l'Eden, in canto immoto e mutevole allo stesso tempo, in un ossimoro sonoro. L'allegro molto conclusivo riprende il magmatico concerto del principio con melodie più definite (fino ad ispirare la celebre composizione per sintetizzatore e Frippertronics, Larks' Tongues in Aspic part II dei King Crimson).
Il quartetto n. 3 Sz 85 del 1927 sembra originarsi dall'influsso di Alban Berg, che riporta Bartók alla scrittura per quartetto dopo una pausa di dieci anni (il quartetto n. 2 del 1917): vivacemente aspro e dialogico tra gli archi come in una dialettica, rende molto interessante lo strano sviluppo tra canoni e fughe, dove si succedono improvvisi balenii delle varie tecniche esecutive, dai glissando alla sordina, come in una sfida ostinata che d'un tratto si rappacifica per poi, beffardamente, continuare in un suo percorso del tutto “impronosticabile”.
Il quartetto n. 5 Sz 102 del 1934, in cui Katalin Kokas passa a suonare la viola, dispone i movimenti a forma di arco con il celebre Scherzo alla bulgarese al centro: si presenta con un attacco deciso e ancestrale dell'allegro su uno sfondo ostinato e vibrante, un'incastonatura virtuosistica da brivido che muta in un tempo sospeso, di riflessione notturna, il canto o scherzo bulgarese appunto. Ricami raffinati nell'andante si evolvono nella coda virtuosistica dell'allegro vivace.
La terza ed ultima parte dell'esecuzione integrale si apre con il quartetto n. 2 Sz 67 composto tra 1915 e 1917: riflessivo, si configura in una struttura tripartita con uno strano andamento oscillante e apertamente indeciso con una magnifica danza al suo centro nell'Allegro molto capriccioso. Prima incisione discografica di Bartók nel 1925, è anche il più eseguito solitamente.
Il quartetto n. 6 Sz 114 del 1939, contraddistinto da cinque movimenti indicati come Mesto, si configura come fondamentalmente tenebroso, e tra i più ricercati, che in qualche modo “summa” gli altri: le aperture sarcastiche con le marcette alla Šostakovič, seguite dall'ironica “burletta” che si snoda verso l'ultimo movimento, lento e ricco della mestizia che sovratitola tutti e cinque i movimenti. È questo il correlativo oggettivo del conflitto che si era da poco inaugurato in Europa e dal quale Bartók cercava riparo negli Stati Uniti, con quella “valigia piena” riempita in Europa della sua matrice folclorica e apertamente atavica, insieme a quel suo principio ordinatore e naturale che lo contraddistingue in tutte le sue opere: un canto ungherese che lo accompagna nel profondo.
Mai notazioni furono più meritate: il Quartetto Kelemen è di straordinario talento, come ha dimostrato nei tre tempi del concerto integrale, in cui si è notata anche la maestria di Katalin Kokas alla viola nel secondo tempo; ed i quartetti 3 e 5 che sono risultati peraltro i più entusiasmanti e ricercati tra le prelibatezze del primo e del terzo tempo. Grandissimo successo di pubblico con una sala piena e ripetuti applausi.