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Land of Kush. Pynchon goes MiddleEast
L'ensemble di Montreal capitanato dal buon vecchio Sam Shalabi (ormai storico militante della scena post-rock/indie del suo paese) ha pubblicato un disco superlativo, dalla catalogazione ardua anche per i fan delle etichette più strampalate, e basato su un'opera letteraria di Thomas Pynchon dallo stesso titolo: Against the Day.
Due sono i fattori principali che danno forma a quest'opera musicale, al di là delle caratteristiche più esteriori, e sono ambedue personali del deus ex machina del progetto, il succitato Shalabi. Il primo fattore è quello identificabile nell'influenza orientale. Nato a Tripoli nel 1964, Shalabi porta con sé quei luoghi e la loro cultura nonostante sia cresciuto nel Canada, e il loro peso sulla sua produzione musicale è stato marcato fin dall'inizio della sua carriera solista; in questo caso le ritmiche e le melodie sono fortemente imbevute di suggestioni nord-africane e para-islamiche, per quanto imbastardite con un gran numero di stili e strumentazioni prettamente occidentali.
Il secondo fattore è letterario: come ci informa lo stesso Shalabi nelle note che accompagnano il disco, Against the Day nasce come omaggio al romanzo di Pynchon, e si può considerare un'unica composizione suddivisa in cinque sezioni, battezzate con i titoli dei cinque capitoli del chilometrico libro in questione. Questo si riflette nella materia musicale, poiché, come il libro era un coacervo di personaggi, situazioni, stili e suggestioni differenti che coprono virtualmente tutte le manifestazioni della natura umana, così questo disco è un mirabile intreccio di stili e approcci musicali eterogenei, nonché una delle più interessanti fusioni di oriente e occidente degli ultimi tempi.
Questo melange di influenze di natura diversa si concretizza nel lavoro di un ensemble di più di trenta elementi, diretti dallo stesso Shalabi (alle prese col suo fidato oud, il tipico strumento a corde dei suoi luoghi d'origine) e annoveranti, tra l'altro, tre diversi cantanti solisti, una sezione di ottoni, fiati, archi e un plotone di percussioni.
La “terra di Kush” è una regione della Nubia legata storicamente all'Egitto, ma la geografia dei luoghi di questo disco è ben più varia: cercherò di descriverla, pezzo per pezzo, per far sì che ci si possa rendere conto del caleidoscopio orgiastico che compone la materia sonora dell'opera.
Le cinque sezioni del disco si articolano tra passaggi orchestrali con largo spazio improvvisativo (spesso di matrice free-jazz) e composizioni strumentali dalla notevole forza melodica, con importanti sezioni cantate. Anche l'elettronica ha un ruolo centrale in quest'opera, e il suo sapore si alterna tra un utilizzo di matrice psichedelica e uno di tipo più moderno, con distorsioni e rumorismi vari.
L'apertura del disco, in The Light over the Ranges, è affidata proprio all'elettronica, tramite una serie di suoni gutturali, che presto vengono scimmiottati da un lento coro monodico mentre drone caustici si insinuano tra le note, spaziati da reminescenze pseudo-arabiche. Su questo tessuto s'introduce furtiva una pulsazione di sottofondo, sulla quale s'innesta poi una melodia di violini danzando lenta e sinuosa sulle scariche elettriche.
L'avvento del secondo pezzo (Iceland Spar) segna un passaggio in secondo piano dell'elettronica, che fa ora da sottofondo ad una melodia orientale di violino e voce, punteggiata da percussioni. Questo è la prima delle tre sezioni centrali e principali del disco, tutte cantate (in questa prima sezione la voce è di Jason Grimmer). Qui la musica esibisce un subdolo crescendo dinamico e orchestrale, per sfociare in una sezione strumentale con assolo di violino, passaggi improvvisativi con solo di oud e più in là, distanziati da reprise e variazioni della melodia portante, innesti improvvisati di sax solista. Il pezzo mantiene un andamento lento ma quasi urgente, febbrile a tratti ove gli strumenti solisti più si astraggono nella loro ipnosi improvvisativa.
Raggiungendo così il centro dell'opera, Bilocations si apre con un riferimento blues dilatato (quasi come in certi momenti di F#A#∞, il primo disco dei compagni d'avventure Godspeed You Black Emperor!) che vira poi verso aree nordafricane, in un tempo libero senza sezione ritmica. L'apertura, mirabile, avviene su un brano cantato dalla scura voce di Molly Sweeney che mi ha ricordato (tanto per capire dove si va a parare a livello estetico) qualcosa a metà tra il cantato dei Portishead e la performance della cantante di Archangels Thunderbird degli Amon Düul II – si ha cioè un certo imbastardimento più convenzionalmente rock, ma è anche forse l'apice del disco, con la sua visceralità e la forza espressiva della voce sospinta dalla ritmica percussiva e l'accompagnamento su registri bassi.
Il pezzo continua con un solo di flauto, mellifluo e sinuoso come un serpente, per poi atterrare su una sezione d'insieme basata su dissonanze free-jazzate (inserite più meno come in certi sprazzi di Arbeit Macht Frei degli Area), con un drone a fare da tappeto sonoro. Tutto questo prima che i suoni si dissolvano su una linea di flauto + violino adagiata su una ritmica in quarti di basso elettrico (in tempo dispari, 5/4), per un effetto lento, diradato e avvolgente.
Prima di terminare, la traccia ha ancora altro da offrire: dapprima uno stop ritmico ci presenta un piccolo coro di acute voci femminili (con un effetto simile a quello sfruttato da John Zorn su IAO, ad esempio, ma senza la stessa carica erotica), e infine un corposo drone condito con spruzzi di sassofono.
Dopo questo stupefacente insieme di suggestioni musicali, intellettuali e culturali così sapientemente miscelate, la traccia seguente (la title track) ci consegna quello che può essere considerato come l'apice ritmico del disco: da un inizio con rullante solo in una ritmica cavalcante, gli ottoni crescono liberi sui registri più disparati, per poi esplodere su una trascinante melodia pseudo-orientale suonata dagli archi, dove gli ottoni jammano sullo sfondo e bassi, batteria e percussioni si scatenano senza remore. Dopo quest'apoteosi, un nuovo stacco di batteria sola ci trasporta in un insieme di strumentazione varia e vocalizzi maschili quasi tribali: siamo nel mezzo di una sfrenata danza tra le sabbie del deserto, una libera espressione senz'altro senso se non quello della performance liberatoria, mentre il freddo della notte di dune si avvicina.
In quest'espressione musicale dell'ensemble tutto muore improvvisamente. Un nudo rullante ci trasporta su atmosfere più cupe, su un tessuto libero di fiati e batteria, sui quali poi si innestano gli archi e vari effetti sonori. Quest'insieme di melodia e contrappunti timbrici che compone l'ultima sezione del disco, Rue de Départ, desolatamente si spegne, andando infine a morire in un improvvisio silenzio.
Quello che più colpisce è la capacità di mescolare gli stili e i timbri più diversi, e l'alternanza di sezioni a volte contrastanti, senza soluzione alcuna nella continuità dell'immagine creata dal disco.
La direzione di Shalabi è ottima: sa quando è il momento di lasciar sfogare l'orchestra in sfrenati baccanali sonori, e come far accrescere l'espressività di un pezzo giocando le carte al momento giusto, ma in modo comunque libero, sfuggendo a facili classificazioni. Si ha l'impressione che i componenti dell'ensemble si trovino a loro agio, e riescano a coagularsi in sintonia nelle numerose sezioni improvvisative.
Anche la registrazione, condotta dal buon Efrim Menuck (insieme a Radwan Ghazi Moumeneh) nel mitico Hotel2Tango, è di ottimo livello e si riescono a distinguere tutte le differenti timbriche prodotte dai musicisti. Fatto che, data la natura dell'opera, non è affatto da trascurare.
Il resto è solo silenzio: non entro volentieri nei meandri psicologici di questo disco, perché ritengo che le suggestioni contenute siano tante e tali da sfuggire agli stessi creatori e da consentire/suggerire una poetica personale, suddivisa tra i due fattori orientale (con tutto il carico connesso alle circostanze politiche e culturali di questo scorcio di millennio), e letterario (dove il raffronto tra il libro e il disco potrebbe dar luogo a interessanti considerazioni). Il risultato sarà di volta in volta diverso a seconda di quanto ciascuno risuonerà più con il primo ovvero con il secondo di questi fattori.