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Liegi. Preambolo alla messa in scena de l'Ur Don Carlos
In occasione della messa in scena del Don Carlos di Giuseppe Verdi, grand opéra in cinque atti in francese, all'Opéra Royale de Wallonie-Liège, abbiamo rivolto alcune domande riguardanti i motivi della scelta della prima versione del 1866, l'Ur Don Carlos, a Stefano Mazzonis di Pralafera, direttore generale e artistico del teatro, nonché regista dello spettacolo. Paolo Arrivabeni ci ha parlato della direzione musicale e Gregory Kunde di vari aspetti del personaggio.
La decisione di mettere in scena il Don Carlos è stata coraggiosa perché si tratta dell'opera più lunga e monumentale scritta da Verdi, cosa che richiede una lunga preparazione e notevole impiego di mezzi. Il grand opéra, infatti, deriva dalla tragédie lyrique, di cui mantenne i balletti, i fastosi apparati scenici, aggiungendo l'obbligo dell'ambientazione storica. Mazzonis ha scelto per la messa in scena la partitura delle prove del 1866, che venne poi successivamente tagliata perché era troppo lunga. Per spiegare con chiarezza la sua scelta è necessario ripercorrere alcune tappe fondamentali. I tempi durante le prove generali all'Opéra venivano puntigliosamente cronometrati affinché la durata dell'opera non superasse la mezzanotte. Due erano i motivi, uno comprensibile per permettere a chi non viveva a Parigi di prendere gli ultimi treni che partivano a mezzanotte e trentacinque, mentre l'altro, che impediva di anticipare l'orario, era molto discutibile, permettere di cenare tranquillamente. Erano le “forche caudine” sotto le quali tutti i compositori dovevano passare e che rendevano il melodramma non “scritto di getto” ma un “mosaico”(le parole virgolettate sono di Verdi in una amara lettera a Du Locle).
Mazzonis ci ha detto che da lungo tempo pensava di mettere in scena il Don Carlos, perciò ha ripetutamente analizzato il dramma di Friedrich Schiller, Don Karlos, Infant von Spanien, per valutare i cambiamenti apportati nel libretto da Joseph Méry e Camille Du Locle, guidati con mano ferma da Verdi. Ha aggiunto di avere tenuto conto delle indicazioni sugli otto tagli, di cui fortunosamente furono ritrovati gli spartiti negli anni '70, fatti da Ursula Günther nell'introduzione all'Edizione integrale del Don Carlos e dei testi di diversi musicologi, a cominciare da Julian Budden che ha dedicato a Verdi una monumentale monografia.
Mazzonis ha scelto la versione del 1866, quella “scritta di getto” e non il “mosaico” successivo preferendola a quella che andò in scena al Théâtre Impérial dell'Opéra 11 marzo 1867 e a quelle italiane: quella in cinque atti del 1872 al San Carlo, modificata da Verdi, la versione ridotta da Verdi a quattro atti del 1882-1883 e senza balletti, andata in scena alla Scala di Milano e la versione del 1884 a Modena, in cui è ripristinato il quinto atto senza i balletti, ma di cui non è testimoniato un diretto intervento dell'autore. A ciò si aggiunge che la successiva traduzione dal francese all'italiano compromette il legame tra musica e parola, e fa perdere forza espressiva e drammatica.
Gli interventi sul testo di Schiller furono guidati da Verdi, giustamente considerato il nostro grande drammaturgo dell'Ottocento da protagonisti del teatro come Carmelo Bene. Il primo atto che si svolge a Fointainebleau in cui avviene l'incontro fatale tra Carlos ed Elisabetta è uno degli episodi tratti da Philippe II, roi d'Espagne di Eugène Cormon (1811- 1903). È la premessa fondamentale al dramma del protagonista del titolo e che spiega gli avvenimenti successivi. Anche la scena dell'autodafé con significative modifiche fu suggerita da Verdi che voleva una grande scena che potesse rivaleggiare con la scena dell'incoronazione di Jean de Leyden de Le Prophète di Meyerbeer. Di Verdi fu anche la decisione di eliminare anche vari personaggi del testo di Schiller tra cui i due su cui è imperniato l'intrigo politico: il Duca d'Alba e Domingo, il confessore del re, che nel dramma teatrale è da loro manovrato. Filippo II riacquista così il suo spessore di monarca, anche nel rapporto con il Grande inquisitore, che riflette l'aperta ostilità di Verdi al potere temporale della Chiesa romana.
Nella versione del 1866 non ci sono i balletti perché tra i tanti problemi e complicazioni nell'allestimento del Don Carlos, si aggiunse il fatto che Arthur Saint-Léon, futuro creatore di Coppelia su musica di Delibes, che aveva proposto una grandiosa festa barocca, era sotto contratto al Teatro Imperiale dell'allora Pietroburgo e là fu trattenuto da imprevisti. Fu sostituito da Lucien Petipa, già coreografo de Le quattro stagioni de Les Vêpres siciliennes, tutti questi avvenimenti provocarono il ritardo nella composizione della musica. Mazzonis ci ha detto che la gestazione della messa in scena è durata tre anni, per la monumentalità dell'opera che prevede otto cambi scena e sette scene da realizzare, quella del convento di San Giusto si ripete. Ha aggiunto di avere dato indicazione di realizzare scene che rispettino lo sfondo storico dell'opera e che i costumi dell'epoca fossero uno diverso dall'altro, a parte le guardie e i monaci.
Per quello che riguarda la direzione d'orchestra, Paolo Arrivabeni ha notato che molto dell'Ur Don Carlos è presente nell'edizione in quattro atti, che ha già diretto, ha inoltre affermato che nella parte del manoscritto ritrovato i tempi sono più dilatati e la scrittura è più chiara nell'armonia e nella scelta delle tonalità. Verdi, inoltre, ha ritagliato per ogni personaggio una musica, che lo descrive anche con l'uso dei bemolle e dei diesis. Per quello che riguarda gli strumenti presenti in orchestra, il controfagotto viene impiegato solo nella scena in cui compare il Grande Inquisitore, aggiungendo una tinta ancora più plumbea all'atmosfera già cupa e opprimente che dà la “tinta” all'opera già dalle “acciaccature” delle prime note del primo atto. Il compositore ha prescritto anche quattro fagotti che quando suonano all'unisono contribuiscono a rendere la tetra atmosfera di questa vicenda, che ha scarsi sprazzi sereni. Ha proseguito affermando che la direzione di questa opera è molto impegnativa non solo per la sua durata ma anche per la grande complessità dei ritmi, per far risaltare i diversi colori dell'orchestra, nel bilanciamento delle diverse sezioni degli strumenti e nel loro rapporto con i cantanti per non coprire le voci.
A Gregory Kunde abbiamo chiesto cosa pensa del ruolo che affronta per la prima volta, dal punto di vista vocale, sulla base della esperienza maturata nella sua lunga carriera di ben quarantadue anni e della sua conoscenza delle opere di Verdi che precedono e seguono il Don Carlos. La conferma della lunga gestazione dello spettacolo ci è stata confermata da Kunde che ha detto che questa parte gli è stata offerta due anni fa in occasione della messa in scena della Norma. Ci ha pensato a lungo, l'ha studiata e ha risolto che la parte è magnifica e c'è molto “belcanto” soprattutto nei duetti con Elisabetta e Rodrigo, due motivi che l'hanno indotto ad accettare. Per quello che riguarda il personaggio Kunde ha detto che per lui è un tornare ad un passato vissuto, di innocenza e di impeto giovanile, che spera di rendere al meglio. Alla domanda di cosa ne pensa come direttore d'orchestra ci ha risposto che conosce bene il repertorio belcantistico e sulla base della sua esperienza potrebbe ben indirizzare cantanti e orchestra, mentre di Verdi conosce di più Rigoletto e La traviata perché son le opere che ha cantato di più. Kunde inoltre ha affermato che per lui le entrate “belcantistiche” per tenore più straordinarie e magnifiche, anche se impegnative, sono quella di Arturo ne I Puritani e quella di Rodrigo di Dhu ne La donna del lago. Come dargli torto?