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Ludovico Einaudi incanta Ostia antica. Tra minimalismo classicheggiante e improvvisazioni jazzistiche
Lunedì 25 luglio 2011 il Teatro Romano di Ostia Antica ha ospitato Ludovico Einaudi in un concerto per piano solo, quasi un ritorno alle origini, dopo che il musicista torinese ci aveva abituati a performance con piccoli ensemble strumentali. E dobbiamo ammettere che, per alcuni versi, la dimensione del solista giova a una maggiore essenzialità dell'esecuzione, nella quale l’artista sembra quasi impegnarsi in un atto di compenetrazione sensoriale con i tasti di avorio ed ebano, distillando note in un chiaroscuro crepuscolare propiziato dall’ambiente circostante.
Di primo acchito, tra l’altro, l’ascolto risulta un pochino disturbato da alcuni fattori esterni, dagli aerei in decollo dal vicino aeroporto di Fiumicino all’eco dei clacson e alle sirene delle ambulanze provenienti da via Ostiense e da via del Mare: in realtà, si tratta di rumori discreti, che quasi si fondono con il tessuto sonoro del concerto di Einaudi, e costituiscono, per così dire, un controcanto industrial ai rumori della natura e al paesaggio artistico-naturale, con gli alberi, i ruderi degli scavi romani, il tramonto e l’odore del mare portato fino al teatro da una brezza rinfrescante che sembrava quasi annunciare il buio e le stelle stagliate sul cielo limpido: tutti fattori che insieme alla venue hanno contribuito a rendere il concerto molto suggestivo.
Si accede alle gradinate del teatro percorrendo un corridoio dove un tappeto rosso sembra quasi una linea di congiunzione ideale tra il musicista e la storia di cui sono pregni i monumenti romani. Einaudi si presenta sul palco, come di consueto, con un abbigliamento sobrio ed elegante. Comincia concentratissimo sul pianoforte gran coda della Steinway, quasi intento esclusivamente a suonare e a profondere sé stesso nell’esecuzione, con effetti di luce viola a rischiararlo debolmente.
Il primo brano è una fusione di “Snow Prelude n. 15” e di “Tu sei”. Alcuni passaggi sembrano improvvisati, con echi da Claude Debussy (quello più intimo) e da Erik Satie. Già capiamo che Einaudi vuole lasciare più del previsto spazio all’improvvisazione, indulgendo oltre la sua consuetudine a moduli e a scelte stilistiche tipiche del jazz (non dimentichiamo che la sua carriera di musicista cominciò con il gruppo torinese di jazz Venegoni & Co, con il quale Einaudi incise due dischi, Rumore rosso e Sarabanda, pubblicati dall’etichetta Cramps), e ricordando a tratti musicisti come Keith Jarrett o Stefano Bollani.
Il secondo brano si sposta ancora più decisamente verso l’ultimo disco da studio, Nightbook, anche qui con la fusione di temi derivanti da “Berlin Song” e dalla title-track, per diventare più complesso, fino a sfociare nella melodia di “Lady Labyrinth”, dove si avverte una chiara progressione (qui le cadenze compensano, per così dire, l’assenza dell’accompagnamento delle chitarre, del violoncello e dei live electronics che abbiamo riscontrato in altre esecuzioni dal vivo del brano). Poi la musica diventa più tenue fin quasi a smorzarsi nelle armonie di “Indaco”. Le luci cambiano colore, diventando azzurre e proiettando vari effetti sulle colonne corinzie del proscenio.
Il terzo brano riprende i temi più noti di Divenire (grazie anche all’inserimento nella colonna sonora del film Ovunque sei, diretto nel 2006 da Michele Placido), ossia “Fly”, “Uno” e “Divenire” stesso: è un brano più disteso e meno ritmato, in cui però Einaudi introduce sviluppi che rimandano a una sorta di improvvisazione jazz con tocchi minimalisti, vera cifra distintiva di questo concerto: il brano veleggia tra Keith Jarrett e Michael Nyman, da un lato, e Herbie Hancock e Chick Corea, dall’altro. Le luci, questa volta proiettate sul retro delle colonne, sono di un viola più aereo, tali da suggerire l’effetto di un vapor d’acqua e da dare l’impressione di stare in un santuario da cui sarebbe di lì a poco uscita una divinità vaticinante.
Il quarto brano continua con i temi da Divenire: è molto vibrato, con la tastiera quasi percossa a disegnare chiaroscuri ritmici. Dopo gli applausi, gli effetti luminosi cambiano di nuovo: trascolorando dal giallo all’arancione, le luci suggeriscono l’effetto ammaliante del sole africano al tramonto. E qui Einaudi riprende a suonare, con un pezzo che riprende i temi della “Melodia africana”, frutto dei suoi viaggi in Africa, culminati con la collaborazione con Ballaké Sissoko, suonatore dell’arpa tradizionale africana detta kora, la cui cassa armonica è costituita da una gigantesca zucca.
Il quinto brano è più frastagliato, al punto che la melodia si disegna solo dopo: anche qui dominano i temi da Divenire, soprattutto per i brani “Ritornare” e “Oltremare”; peccato che sia assente il sottofondo degli strumenti a corda. Improvvisamente le note in tonalità maggiore sembrano richiamare un’eco remota e due accordi gravi segnano un trascolorare della musica verso una maggiore e melodiosa risoluzione.
Nel sesto brano entra improvvisamente il celebre motivo de “Le onde” ma con una diversa chiave tonale.
Il settimo brano comincia in modo cupo, con effetti di vibrato, che ricordano alcuni pezzi dei primi Pink Floyd e strizzano l’occhio al post rock; è, tra l’altro, uno dei pochi brani in cui al pianoforte si affiancano degli effetti preregistrati sapientemente dosati dalla cabina di regia. Poi la tastiera sembra animarsi di nuovo impeto, virando verso sequenze melodiche che ricordano immancabilmente Philip Glass e la musica minimalista.
L’ottavo brano sembra riprende le consuete melodie con un piglio quasi jazz, suggerendo che cosa potrebbe accadere se Bach venisse suonato con venature romantiche.
Il nono brano, pur con pochi tocchi, risulta particolarmente ispirato: sembra quasi una trasposizione semplificata della Sonata n. 14, op. 27, Mondschein, di Ludwig van Beethoven.
Durante l’esecuzione del decimo brano, “Ancora”, da Una mattina, particolarmente lungo e complesso, improvvisamente un gatto, con passo felpato e movenze sinuose, sale di soppiatto sul palco, quasi per accompagnare il maestro con inediti solfeggi. Inizialmente Einaudi non nota questa improvvisa e imprevista irruzione; poi se ne accorge, ma sono pochi secondi: sorride e poi continua imperturbabile.
Il concerto sembra terminare con una standing ovation, ma, richiamato a gran voce, il compositore torna e concede alcuni bis:
un brano d’atmosfera, un altro costruito come un’improvvisazione jazz, e, per ultimo, “Le onde”, suonato con precisione filologica e senza variazioni, questa volta, rispetto all’originale su disco, mentre le luci sembrano proiettare sulle colonne immagini ombreggiate, come nel mito della caverna di Platone.
In conclusione, un concerto in cui il compositore piemontese è riuscito brillantemente a coniugare un notevole virtuosismo strumentale con una studiata semplicità, arrivando anche a lambire i territori dell’improvvisazione jazzistica. A proposito di questa studiata semplicità: si sente talora dire che le armonie einaudiane sono spesso triadi allo stato fondamentale, che denotano un linguaggio eccessivamente minimalista e scarno, fino a dare l’impressione di una difficile distinguibilità tra un pezzo e l’altro.
In parte queste osservazioni hanno una loro plausibilità, ma non dimentichiamo che si tratta di tratti formali che caratterizzano anche una ben precisa tradizione della musica “colta”, ossia il classicismo viennese. Come ha scritto il grande filosofo e musicologo Theodor W. Adorno (On Popular Music, 1941), le stesse melodie di Franz Joseph Haydn “restano per lo più limitate a triadi di tonica e a intervalli di seconda”, fino a risultare, “dal punto di vista ritmico, più semplici degli arrangiamenti comuni del jazz”.
In realtà, nonostante le apparenze, in Einaudi, partendo proprio da questa semplicità “costruita” di stampo quasi settecentesco, assistiamo a sviluppi tematici sottotraccia, dove il compositore, con un approccio eclettico e “post-moderno”, attinge a numerose suggestioni tratte dal minimalismo come dal jazz, dalla musica etnica e dal rock, fino a riprendere, ovviamente, anche alcune suggestioni del pianismo tardo-romantico e della migliore tradizione europea e americana.