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Noir in festival 2012. Tulpa incorona Federico Zampaglione maestro del brivido
Brividi ad alta quota. Tra le anteprime italiane di maggior prestigio ospitate quest’anno a Courmayer, per l’ormai tradizionale appuntamento con il Noir in Festival dal 10 al 16 dicembre 2012, vi era senz’altro Tulpa di Federico Zampaglione: attesissimo sia da coloro che avevano conservato un fondo di scetticismo, sia da quelli (e chi scrive è tra costoro) che avevano amato molto le precedenti incursioni nel cinema di genere dell’eclettico artista, già noto al grande pubblico per essere il cantante dei Tiromancino.
Alla prova del nove questo thriller così sadico, sanguinolento, feroce, si è rivelato una vera e propria bomba. Tale, insomma, da rivitalizzare quell’approccio genuino all’orrore e al mistero che aveva caratterizzato il cinema italiano nella stagione d’oro rappresentata, senza ombra di dubbio, dagli anni ’70 del secolo scorso, coi film dei vari Argento, Fulci, Lado, Martino.
In realtà Tulpa aveva già beneficiato di una vetrina internazionale di tutto rispetto sul finire dell’estate scorsa, quando era stato presentato al londinese FrightFest, dove aveva suscitato accese discussioni. Pare infatti che il buon Zampaglione, con una certa accortezza, non sia rimasto insensibile ai rilievi posti in quell’occasione, rivedendo successivamente il montaggio dell’opera affinché risultasse più agile e di maggior impatto, nella sua dichiarata ricerca del tenebroso, dell’orrorifico. A conti fatti il gioco sembra essergli riuscito. Ben incastonato in location romane altamente evocative come quelle dell’EUR, Tulpa rappresenta in qualche modo la discesa della sua protagonista in un abisso fatto di trasgressioni e di pericoli costantemente in agguato; peraltro il personaggio in questione, Lisa, è stato portato sullo schermo col giusto mix di grinta e sensualità da una Claudia Gerini perfettamente calata nel ruolo.
L’avventura dai risvolti grandguignoleschi cui va incontro Lisa è anche la conseguenza di una doppia vita, di un non accontentarsi del grigiore sperimentato nel quotidiano: se di giorno questa giovane donna deve lottare col ruolo che occupa in una importante azienda, che le richiede di essere sempre all’erta e competitiva, il tempo libero la spinge invece in un club che è oscuro e affascinante tempio della trasgressione. Spregiudicati incontri sessuali e un’aura esoterica caratterizzano il luogo. In questo secondo aspetto, e cioè nella componente mistica legata al mondo orientale, sembra quasi di scorgere l’ombra del bellissimo Tears of Kali di Andreas Marschall, regista tedesco dal notevole talento che ci sentiamo di accostare a Zampaglione anche per la raffinatezza visiva nel citare i maestri italiani del genere, in primis Bava e Argento; se Tulpa è già un valido esempio della comune propensione a citare con spigliatezza le atmosfere e lo stile dei classici di qualche decennio fa, nel caso di Marschall è il recentissimo Masks ad offrire, in maniera persino più esaltante, determinate suggestioni.
Tornando a Tulpa, la tana in cui il personaggio della Gerini si reca per soddisfare le proprie fantasie erotiche è anche il terreno d’incontro col sinistro e ambiguo demiurgo, impersonato dallo stesso Nuot Arquint che aveva destato un’impressione così forte in Shadow. La sua presenza scenica e quella fisicità serpentina spiccano pure qui. Così come spicca e anzi si amplifica, rispetto allo Shadow poc’anzi citato, quella tendenza al sadismo e alla ferocia nel rappresentare gli omicidi che, complici make up ed effetti scenici davvero favolosi, danno vita (o per meglio dire morte) ad alcune sequenze destinate a diventare di culto: su tutte quella della giostra, l’incipit in chiave bondage e la scena dei topi, realmente da brividi. Ma è anche la scelta degli attori a far sì che il film, prodotto tra l’altro dalla IDF - Italian Dream Factory di Maria Grazia Cucinotta, regga come tensione: credibili le apparizioni di Michele Placido, di Ivan Franek, della sensuale Crisula Stafida e di una sorprendente Michela Cescon. Tali figure si agitano in una dimensione che è frutto anche della liminarità tra la luce e il buio, tra la normalità e il carattere decisamente “weird” di certi ambienti, tra l’impostazione fotografica fredda e algida delle scene che rappresentano la routine quotidiana e i cromatismi più accesi, conturbanti, violenti, con cui viene introdotto un mondo più seducente ma al tempo stesso pieno di insidie.