Supporta Gothic Network
Orso d'Oro ai Fratelli Taviani. Cesare deve morire
Distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti dopo che il film era stato rifiutato da altre case di distribuzione, Cesare deve morire, di Paolo e Vittorio Taviani inizia proprio con l’epilogo della rappresentazione del Giulio Cesare di Shakespeare nel teatro del carcere romano di Rebibbia. Nel ruolo di sé stessi i detenuti attori, quelli del reparto di massima sicurezza, diretti da Fabio Cavalli, autore teatrale e qui anche nel ruolo di attore. Spenti i riflettori del palcoscenico, l’intreccio narrativo si sviluppa a partire proprio dai provini dei detenuti, sei mesi prima.
Mi sono chiesto alla fine della proiezione di Cesare deve morire quale sia stata l’urgenza narrativa che ha investito i fratelli, autori di un film che, pur vincendo l’Orso d'Oro nella 62° edizione del festival di Berlino, ha prodotto tra la stampa estera non poche perplessità, ritenendo l’opera dei due per niente innovativa, poco coraggiosa e anche un po’ conservatrice.
Come spesso accade la verità si trova nel mezzo e, a prescindere dal maggiore o minore gradimento del film, nel nostro paese ancora oggi (ahimè) una pellicola del genere rompe quegli ingranaggi ben oliati ma ormai obsoleti dell’industria cinematografica di forte vocazione nazional-popolare, che troppo spesso tende ad assecondare (più che a stimolare) i gusti del pubblico Italico.
Se da un punto di vista formale – e qui bisogna dar ragione alla critica tedesca e francese – il film non presenta nessuna eclatante novità (per ammissione degli stessi Taviani anche il bianco e nero è usato come “strada già battuta”); e forse indugia in alcuni momenti in un (pur comprensibile visto lo sfondo) eccesso di retorica; Cesare deve morire ha il grande pregio (e merito) di non voler rappresentare sullo schermo semplicemente la vita di alcuni detenuti del carcere di Rebibbia, cioè di uomini. Usando un parallelo preso in prestito dalla tragedia greca, coloro che si trovano immersi nella civiltà dominata dalle leggi tribali, da quelle della natura che si oppone alla cultura, dal genos, dalla legge del più forte, e di rappresentare il percorso che proprio grazie alla cultura (qui intesa non solo in senso storico ma anche in quello pragmatico) fa emancipare i detenuti da quell’isolamento che non è solo fisico (la prigione), ma anche e soprattutto mentale.
In tal senso, prendere in prestito il teatro di Shakespeare e metterlo a servizio degli attori carcerati produce una forte tensione dialettica, ben espressa dal rapporto tra mondo reale (il carcere) e mondo fantastico (il teatro): da un lato la verità della Realtà, quella dei detenuti e delle loro storie di vita, dall’altro la verità dell’Arte.
Gli attori, personaggi “veri”, proiettano inconsapevolmente il loro vissuto e le loro pene nello scenario universale della tragedia e quindi in un mondo fantastico, non più reale. In questo modo si innalzano al di sopra del giudizio della loro epoca, escono dal recinto della colpa individuale e i loro delitti, come quelli di Bruto, diventano delitti che appartengono all’umanità tutta, e quindi anche a noi pubblico.
Grazie a questo artificium i Taviani riescono non solo a “elevare” gli attori detenuti, ma permettono a noi, spettatori appartenenti al mondo della cultura, di partecipare alle loro vite senza voler suscitare (e qui va un plauso ai registi) a tutti i costi l’empatia e l’immedesimazione con i detenuti stessi.
Lo scarto risultante tra la vita e la rappresentazione di essa, il teatro, crea uno straniamento che produce un forte legame artistico tra l’oggetto rappresentato, il carcere, e l’esigenza soggettiva degli autori di raccontalo. Un'urgenza narrativa inderogabile.