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Palaexpo. Vera fotografia di Gianni Berengo Gardin
“Io vivo fotografando… La fotografia è come la benzina per l’automobile. Mi fa andare avanti, mi dà la carica”. Queste parole del fotografo Berengo Gardin ci fanno capire subito che abbiamo a che fare con un professionista innamorato del suo mestiere, che ci ha donato, a partire dagli Anni ’50 del Novecento, un ritratto veritiero del nostro tempo, e dell’Italia in particolare, come è ben evidenziato nella mostra “Gianni Berengo Gardin. Vera fotografia. Reportage, immagini, incontri”, ospitata a Roma nel Palazzo delle Esposizioni fino al 28 agosto 2016.
Attraverso 260 immagini, alcune delle quali sono ingrandite e commentate da noti personaggi della cultura, il suo racconto in bianco e nero si srotola sulle pareti espositive coinvolgendoci profondamente. Sono immagini potenti, eppure prive di aggressività, rispettose ed equilibrate. Si tratta indubbiamente di “vera” fotografia, perché egli rifugge da ogni artificio e, fosse per lui, abolirebbe “per legge” il photoshop.
La sua scelta di vita è stata quella di essere sempre fotografo di documentazione, con un atteggiamento di osservatore partecipe di fronte alla realtà, sempre in prima linea per raccontare il mondo del lavoro, la società, sia rurale sia urbana, l’emancipazione femminile. Se all’inizio la sua scuola è stata quella della fotografia sociale americana (Farm Security Administration), ben presto Berengo Gardin ha capito che in fondo non gli interessava diventare “artista della fotografia”, ma bensì “giornalista” in grado di raccontare storie diverse, giorno dopo giorno.
La mostra è stata suddivisa per aree tematiche, rispettando la successione temporale dei reportage realizzati nella sua lunga carriera. La sezione che apre il percorso espositivo è dedicata a Venezia, che considera la sua città, perché, pur essendo nato a Santa Margherita Ligure (nel 1930), vi si trasferì adolescente con la sua famiglia nel dopoguerra. E se le immagini degli anni ’50, ’60 e ‘70 ci presentano la città lagunare non ancora invasa dal turismo di massa, quelle della sezione finale dedicata alle grandi navi da crociera ci presentano Venezia sotto tutt’altro aspetto, quasi violentata nella sua bellezza.
Un’altra sezione è dedicata a Milano, città dove vive dal 1965, e dove ha documentato la storia dell’industrializzazione con i suoi bruschi cambiamenti di vita, con le proteste e le rivoluzioni dei lavoratori. Altri temi importanti sono quelli che affrontano l’orrore dei manicomi con le camicie di forza e la segregazione dei malati di mente, difesi a suo tempo dal coraggioso psichiatra Franco Basaglia, con il quale collaborò attivamente, o anche la vita degli zingari, con i quali ha instaurato in diverse città rapporti di amicizia. È un popolo, quello dei nomadi, che ama e che difende a spada tratta perché storicamente sempre perseguitato.
Anche i paesaggi sono presenti, come per esempio nel caso della strada sinuosa della campagna senese, con i suoi caratteristici cipressi che fanno pensare a un’opera d’arte: foto che è stata scelta per essere commentata dall’architetto Stefano Boeri “per la forza che ha nel comunicarci l’osmosi che sembra prodursi tra i due lati dell’obiettivo fotografico. Tra il paesaggio esterno e quello intimo; tra la disposizione geometrica di un territorio sublime e la pacata precisione dello sguardo di un artista”.
Un’altra foto, stavolta di un paese laziale, Oriolo Romano, ci mostra adulti e bambini disposti sui gradini di accesso a due portoncini limitrofi nella piazza principale, colti in atteggiamento contemplativo. Commenta in questo caso il giornalista Michele Smargiassi: “c’è qualcosa da guardare lì davanti, qualche cosa che passa, ma passa lenta, silenziosa… c’è qualche cosa che passa, nella domenica del villaggio, forse una processione, forse lo struscio, forse solo il tempo. Ma è una cosa che vale la pena guardare proprio perché passa e dopo non ci sarà più”.
Forse è la vita stessa che passa e che il fotografo riesce a cogliere per documentarla con semplicità, senza finzioni, come ha fatto nei suoi numerosissimi libri (oltre 250), in parte esposti in mostra, a proposito dei quali afferma “Il vero valore dei miei libri si vedrà fra cinquanta o cento anni, quando qualcuno dirà: Guarda com’erano questi italiani. Questa gente che non esiste più, queste case, questo lavoro. Ne sono molto fiero e lo dico senza modestia. È una mia ambizione, non solo un desiderio, ma proprio il mio scopo: lasciare un documento della nostra epoca”.
E, in effetti, lo ha fatto egregiamente.