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PAN Napoli. Le colorate tragedie di Steve McCurry
A visitare la bella mostra di fotografie di Steve McCurry (Philadelphia, 1950) al PAN di Napoli, lo spettatore meno smaliziato potrebbe pensare di star vedendo fotografie recenti: immagini delle feroci guerre che insanguinano l’Afghanistan o l’Iraq, la Libia o la Siria dei nostri giorni. In realtà le coloratissime e tragiche immagini di guerra e di devastazione scattate da McCurry reporter di guerra risalgono a vari decenni fa. Le date di scatto delle circa 100 immagini esposte vanno dal 1979 al 2001, pochissime sono state scattate successivamente. Anche la famosa e immancabile foto che lo rese celebre in tutto il mondo, la Ragazza afghana, fu pubblicata come copertina del National Geographic Magazine nel giugno del 1985.
Le mostre di fotografie di McCurry si vedono in giro per l’Italia dal 2009 e hanno avuto grande successo con la presenza di oltre 800.000 visitatori. La mostra che si visita oggi al PAN di Napoli si basa su di un progetto espositivo curato da Biba Giacchetti e presenta foto del Medio Oriente – dall'Afghanistan all'India – e anche, in misura minore, dell'Africa, di Cuba e dagli Stati Uniti. Suggestivo è l’allestimento di Peter Bottazzi che le propone in grandi dimensioni, con colori sfavillanti, collocate su pannelli e cavalletti di legno bianchi: sul pavimento, sulle pareti, sospesi al soffitto, creando in sei ampi locali un polittico avvolgente attraverso il quale si muovono liberamente i visitatori. L’allestimento, va detto, è formidabile.
Steve McCurry è uno dei fotoreporter più famosi del mondo. Dopo la grande e trasgressiva stagione degli anni ’60 e ’70 i fotoreporter di guerra hanno dovuto combattere con la presenza sempre più incalzante delle immagini televisive e delle fotografie digitali diffuse tramite il Web e gestite dai grandi network dell’informazione.
McCurry è stato per alcuni decenni un fotoreporter libero e sul campo: ha inventato una nuova generazione di immagini di guerra, immagini che ancora oggi vediamo nei mass-media come scorci di una terza guerra mondiale permanente. Le origini della sua attività hanno contorni avventurosi, quasi leggendari: un gruppo di rifugiati dell'Afghanistan gli permisero nel 1979 di entrare clandestinamente nel loro paese, durante l'invasione russa che chiudeva ogni accesso ai giornalisti occidentali. Travestito con indumenti tradizionali e con una folta barba, McCurry trascorse varie settimane tra i Mujahidin, così da mostrare al mondo le prime immagini del conflitto in Afghanistan e dare volti umani a quelli che erano soltanto titoli di giornale.
Da alcuni anni Steve McCurry è entrato nei musei e le sue immagini da semplici – anche se efficaci – scatti di cronaca sono assurte a icone della fotografia. Perché la fotografia - la grande fotografia del ‘900 - sta diventano arte, visione estetica. Non contano più i generi: è tutto «still life». Anche quando l’oggetto è orripilante e angosciante come lo sono le immagini dei cadaveri, dei bambini soldato, delle città distrutte dai bombardieri, la fotografia mostra il reticolo semantico solo all’interno di un linguaggio visivo che lo sovrasta e che si impone al visitatore. Quelle di Steve McCurry appaiono come incantevoli foto di coloratissime tragedie: bellissime immagini di scene che sono state (in un tempo e in un luogo altri) strazianti.
Da un lato, le foto di McCurry che si vedono in mostra al PAN appaiono senza tempo, fissano - come in una icona - i prototipi delle immagini che ogni giorno si vedono in tv o su internet. Da un altro lato, irradiano una potente sensazione di bellezza – Immanuel Kant avrebbe scritto di sublimità – che toglie loro ogni residuo realismo. Colore degli occhi, delle vesti, del sangue, delle armi. Per questo il visitatore si chiede: può una fotografia di un cadavere o di un uccello morente imbrattato dal petrolio essere una bella foto? La risposta è: sì. Perché una bella foto non è la foto di una cosa bella. Anzi: spesso non lo è affatto.
L’artisticità di una foto consiste proprio nella possibilità di ricoprire con un velo trasparente di bellezza, con un linguaggio di forme e di colori, un oggetto che – visto nella sua cruda realtà, con una percezione in presenza e contestualizzata - susciterebbe una reazione di repulsione, di pietà o di terrore. L’astrazione dallo spazio-tempo e la grammatica visuale creano una «immagine» che trascende la «foto».