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Omaggio a Poe. Il ritratto ovale. L'arte e il suo mentore
Il regista e maestro Sergio Salvi è stato collaboratore di Strehler e fondatore con Alessandro Fersen della Scuola Internazionale dell'Attore, insegnante ai Teatri Possibili a Firenze, e al Maggio Musicale Fiorentino, con cui ha messo in scena, tra gli altri, Scene dalla Dama delle Camelie di Dumas, Antigone di Sofocle, L'Orestiade di Eschilo, e tanti altri titoli, in primo luogo shakespeariani, da Macbeth a Misura per misura. Quella che segue è una sua originale quanto poetica rilettura di Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe.
La stanza illuminata dalle fiammelle forse candele o forse fuochi fatui, fa chiarore su una nicchia rimossa “dal quaderno della mia memoria”, dalla quale da tempo mi è precluso l’accesso. Qui una o una moltitudine di fanciulle dalla femminilità al suo primo primaverile rigoglio, sboccia al piacere prima del mio sguardo poi del mio vedere, e devo perché la vista non m’inganni chiudere gli occhi, per placare la fantasia e far ricorso ad una maggiore serenità per dissolvere lo stupore sognante che furtivo si va insinuando nei sensi.
La distinzione tra un’opera dell’ingegno artistico e la realtà di una persona vivente si intersecano per accrescerne l’ambiguità e cancellarne i confini, e così per un tempo non stabilito, forse infinito come sembrano infiniti gli attimi che si tentano di prolungare e fissare, che le tante primavere esplosive di frutti mi donarono. Resto lì ad ammirare e cercare di sondare l’arcano magico della vita che si fissa come opera d’arte ed alla quale imploro un impossibile percorso inverso come sono vani i pensieri e i desideri dei cammini a ritroso.
Consolatoriamente vado a ricercarne i segni, gli oggetti, le lettere che allora fecero da corollario e reliquiario a quegli ardori e ne leggo storie e accadimenti tutti pervase dallo stesso identico percorso, e assimilabili a quel perseverare diabolico che possiedono le coazioni a ripetere.
Vi scorgo sempre fanciulle di bellezze rare e vive col destino accumunato ai fiori quando vengono colti, l’appassirsi insieme del loro croma e del loro profumo, immalinconite dal gobbo reclinare dello stelo come le rose di York e Lancaster. E l’ideale unione col loro artista mentore destinato a diventare infausta ora.
In questo bilancio mi rappresento artista austero, da sempre sposo e congiunto più che della vita dei miei sconfinati quanto indefinibili talenti.
Contro fanciulle di rara bellezza insieme gioiose e belle, emananti luci accecanti dai delicati sorrisi, amanti della vita in tutte le sue espressioni e proprio per questo paradossalmente ostili soltanto all’arte che nell’immortalarle le definiva laddove esse erano per loro natura indefinibili. E ravviso lo sgomento di quando alla cura degli strumenti corrispondeva l’altrettanto ignorarle, ancora di più quando le volevo protagoniste, ravvisanti in ciò l’ennesima catalogazione e successiva archiviazione, compensi per loro natura postumi.
E più il procedere della raffigurazione conduceva al trasferimento della vita verso le forme d’arte, fossero esse Melpomene, Tersicore, Euterpe o la fotografia ed altri talenti, più la salute ed il suo dileguarsi del colorito testimoniavano dell’usurpazione del loro essere. Ma ciononostante esse tutte si fissavano in un resistente sorriso di supposto compiacimento, celante un dolore profondo e spossante che per contro eccitava l’artista di fervido bruciante piacere, direttamente proporzionale allo stremo e alla debolezza di costoro. Ma ancora più ingannevole e tragico per chi lo osservava era il risultato, di una rassomiglianza che avrebbe potuto indurre a credere oltre che al talento dell’artista, ad un amore profondo, solo possibile dispensatore di tante meraviglie.
E quando l’opera era lì per essere compiuta, sembrava crescere nell’autore l’ardore per l’imminenza del trasferimento dell’alito vitale all’opera, e mai finiva con l’accorgersi che ciò che ad esse toglieva e colà trasferiva, erano i segni stessi della vita. La strenua resistenza vitale di colei e di costoro si espresse nella forma dinamica che assumono gli esseri e le cose prima del loro congedo, con un apparente ravvivarsi prima di definitivamente spegnersi. E mentre ancora mi sembra di stare lì incantato a rimirare la mia creazione, ancora non mi avvedo, che quella vita che ho illusoriamente donata e fissata, l’ho a tante creature sottratta.