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La rivoluzione siamo noi. Impegno sociale e identità smarrita
Il 24 giugno 2011 al Teatro India di Roma è andata in scena La rivoluzione siamo noi, una sorta di lettura recitata, intervallata da brani cantati, ispirata alla Soziale Plastik di Joseph Beuys, un artista tedesco vicino all’antroposofia e alle pratiche sciamaniche, da molti considerato l’Anti-Warhol.
Per Beuys l’impegno sociale dell’artista può estendersi a tutti gli uomini in quanto grazie alla forza del pensiero possono anch’essi plasmare la realtà, trasformando attivamente la società attraverso la prassi. Non in senso marxista, tuttavia, ma attraverso “le forme interne del pensiero”, che per Beuys diventa una sorta di scultura: per lui “la possibilità di riprodurre una forma nel mondo fisico dipende dal fatto che questo pensiero acquisti una forma”.
Il percorso scelto da Mimmo Palladino, curatore dello spettacolo, ci permette di rileggere in modo “eversivo” alcune delle vicende e alcuni degli uomini che hanno dato forma alla nostra identità, proprio nell’anno che è anniversario della nostra identità nazionale.
Al di là delle gesta pretese “eroiche” dei nostri padri fondatori, lo spettacolo cerca non tanto di demistificare direttamente la retorica che le circonda, ma, memore della lezione di Beuys e di quella di un artista per molti versi diverso come Bertolt Brecht, prende in considerazione le azioni quasi nascoste e sotterranee, che pure hanno molto contribuito a plasmare il senso della nostra identità e che diventano quasi atti artistici.
Lo spettacolo si è svolto quasi in forma di melologo, con i brani esplicitamente cantati, eseguiti con un semplice accompagnamento di chitarra, in uno stile che ricorda molto il cantautorato italiano ormai classico, da De Gregori a Bennato, da Guccini a De André.
La voce recitante di Ginestra Paladino si è alternata al canto di Antonio Pizzicato, che è anche il regista e compositore delle melodie (i testi erano invece tratti da grandi autori come Ignazio Buttitta, Piero Calamandrei, Edmondo De Amicis, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni), mentre sullo sfondo la violoncellista Claudia Della Gatta conferiva un tono cupo alle melodie.
Di rilievo l’esordio con un monologo anti-razzista, tratto da un testo di Gian Antonio Stella, dove un veneziano sembra incarnare la pretesa di rappresentare l’unica civiltà degna di questo nome: “Al centro del mondo ghe semo noi altri. I venessiani de Venessia. […] Al di là dei campagnoli ghe xè i foresti: comaschi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, inglesi, valdostani...tutti foresti […] Sotto el Po ghe xè i nopo'etani, più sotto ancora dei napo'etani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci. Tutti mori”.
La tematica del corpo della donna, attraverso la vicenda di Anita Garibaldi, viene a occupare un ruolo privilegiato, perché assume il valore simbolico di chi rappresenta le vittime in ombra, quasi dimenticate, come Emanuela Loi, agente di scorta del giudice Paolo Borsellino, trucidata con lui nell’attentato ordito dalla mafia nel 1992 e rievocata con le parole di Dacia Maraini. Oppure di Franca Viola, la prima ragazza che rifiutò il matrimonio “riparatore” dopo essere stata violentata nella Sicilia degli anni ’60.
Viene anche rievocata la vicenda dell’uomo politico e intellettuale antifascista Antonio Gramsci, di cui vengono citate alcune delle più significative parole: “Vivere vuol dire essere partigiani. […] L'indifferenza opera potentemente nella storia. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza […]. E allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente”.
Lo spettacolo continua poi con l’evocazione dell’esperienza della scuola di Barbiana di Don Lorenzo Milani, che viene quasi “contrappuntata” dalla scuola montessoriana, nella quale il lavoro delle mani deve sempre accompagnare il lavoro della mente e in cui la disciplina può essere solo il risultato di uno sviluppo completo.
Viene sottolineata anche l’esperienza della riforma degli ospedali psichiatrici a opera di Franco Basaglia, che rivoluziona la prospettiva per cui nelle comunità concentrazionarie che erano i manicomi “i mobili e gli internati non vanno spostati”, a testimonianza della fissità, dell'immobilità reale e simbolica dell'istituzione.
Abbiamo in definitiva visto uno spettacolo allo stesso tempo "attuale" nelle tematiche esposte e "inattuale" nella struttura, nel senso che ha coniugato l'impegno sociale con la riflessione attiva su varie tematiche politiche, senza concedere nulla alla mera spettacolarità di cui oggi gli spettatori sentono purtroppo il bisogno.