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Teatro dell'Opera di Roma. Il ratto del serraglio ed il cubo magico
Al Teatro dell’Opera di Roma è tornato, dopo circa quarant’anni - ultima edizione nel 1972-73 con Peter Maag alla direzione ed alla regia insieme a Aldo Masella -, Die Entführung aus dem Serail, ovvero Il ratto del serraglio, Singspiel buffo in tre atti KV384 di Wolfgang Amadeus Mozart, che quando lo compose aveva 26 anni, nel 1782. Con la regia di Graham Vick, la direzione di Gabriele Ferro e le scenografie di Richard Hudson, è stato rappresentato dal 12 al 19 aprile 2011.
Le voci sono state di prima scelta con Rodney Clarke nella parte del Pascià Selim, Maria Grazia Schiavo e Claudia Boyle per Konstanze, Charles Castronovo come Belmonte, Beate Ritter come Blonde, Cosmin Ifrim nel ruolo di Pedrillo e Jaco Hujipen in quello di Osmin. A dirigere il Coro del Teatro dell’Opera il Maestro Roberto Gabbiani che è subentrato al caro Maestro Andrea Giorgi scomparso il 25 gennaio del 2010 e che ha diretto il Coro per dieci anni dal 2000 all’agosto 2010. Il Requiem K 626 di Mozart è stato scelto per commemorare la sua memoria il 27 febbraio scorso al Teatro Nazionale con l’intera Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera.
Die Entführung aus dem Serail è la prima opera di Mozart (1756-1791) per il teatro musicale, un Singspiel, genere tipico dell’area tedesca di teatro popolare tra XVIII e XIX secolo che fonde parti cantate e recitate, e che Mozart sdogana definitivamente sia con quest’opera che con il seguente capolavoro Il flauto magico (Die Zauberflöte, K 620) del 1791.
La storia è esotica e narra di un rapimento, quello delle due fanciulle, la spagnola Konstanze e l'inglese Blonde, ad opera dei pirati che le hanno vendute al Pascià Selim insieme al servitore di Belmonte, Pedrillo. Konstanze, fidanzata di Belmonte, è nelle mani del Pascià turco che, nonostante il suo potere, le usa gentilezza e cerca di convincerla ad amarlo, ma lei si rifiuta per l’ennesima volta, tutta presa dal ricordo di Belmonte e cerca di rimandare. Nel frattempo il servitore del Pascià, Osmin, fa la corte all’ancella di Konstanze, Blonde, che lo allontana minacciandolo. Pedrillo, innamorato di Blonde, cerca di vederla e di mettersi d’accordo con Belmonte che è arrivato per salvarli.
Il libretto di Gottlieb Stephanie il giovane (1741-1800), tratto a sua volta da quello del 1781 di Christoph Friederich Bretzner (1748-1807) per Johann André, a sua volta ispirato a numerose varianti francesi, inglesi ed italiane del tema del Turco generoso, richiama un romanzo scritto sessant’anni prima: l’epistolario di Les Lettres Persanes (1721) di Montesquieu, che oltre a mostrare la saggezza delle donne racchiuse nel serraglio orientale (al contrario del despota Uzbek), propone il ragionamento contro il potere assoluto che sarà completamente sviluppato – con l’uso proprio di questi esempi tratti dalle “lettere” – nella sua opera monumentale L’esprit des Lois (Lo spirito delle leggi, 1748). Il Pascià turco Selim, interpretato da Rodney Clarke, basso-baritono che perfettamente ritraeva l’arabo, è infatti “generoso” e paziente con Konstanze, invitandola con le buone maniere nella scena VII del primo atto, dove pure Konstanze, interpretata da Claudia Boyle, canta la sua aria: “Ach ich liebte, war so Glücklich", nostalgica dell’amato Belmonte.
Sul palcoscenico un mondo, quello creato da Richard Hudson per le scene, - sontuosi i costumi ancora suoi - a forma di cubo, sul quale si dipingono da una parte il cielo, e dall’altra l’universo di stelle, che si accendono a volte e da dove porte invisibili fanno uscire i personaggi. Le linee di Mondrian descrivono, rarefatte e a forma di “V”, un percorso per i personaggi che in questo clima orientaleggiante si muovono sulla musica flessibile e leggera di Mozart con la direzione puntuale ma non coinvolgente di Gabriele Ferro. Su questo palco vuoto si spostano gli attori-cantanti mossi da Vick, fuori da qualcosa che sembra il mondo: il carismatico e incredibile Charles Castronovo ci accoglie nella parte di Belmonte (tenore), vibrante e assortita diversamente per ogni scena, un camouflage vocale che lodiamo a piena voce. In questo passaggio da dentro a fuori del cubo rinveniamo una metafora della prigione: dentro troviamo Konstanze nel secondo atto, Claudia Boyle qui rifulge e, mentre racconta la sua pena a Blonde, la bravissima e calibrata Beate Ritter, coinvolge il pubblico permettendogli di notare che gli arabeschi della camera del Pascià, sebbene ornamentali e fiabeschi, sono come una serra chiusa per lei.
Un altro passo magnifico è determinato dal quartetto delle due coppie alla fine del secondo atto: “Ach, Belmonte! Ach, mein Leben!”, riunite quasi in una sola voce prima della tentata fuga: rilucono anche Pedrillo, ovvero Cosmin Ifrim, e Blonde di nuovo. Nel terzo atto, quando si svolge la fuga, il fondo del palco diventa nero, dischiudendo varie porte e finestre dalle quali i quattro innamorati tentano inutilmente la fuga e vengono salvati alla fine dalla generosità sovracitata del Pascià, a scopo didattico contro il comportamento avverso del padre di Belmonte con lui, e a testimoniare della bontà degli arabi al contrario dei pregiudizi malevoli europei.
Prima del Coro dei Giannizzeri, che di nuovo invade ai lati la platea in un costume che per le donne è nero col chador e per gli uomini ritrae arabi a lustro con doppiopetto e occhiali kitsch (un paio con lucine laser), abbiamo il vaudeville "Nie werd' ich deine Huld verkennen" cantato con i quattro amanti anche da Osmin, il basso olandese e preparato Jaco Hujipen.