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Terme di Diocleziano. La magia religiosa nella scultura del Novecento
Un incontro fatale, che portò a una relazione passionale più che a un matrimonio con tutti i crismi. Così potrebbe essere visto il rapporto d’amore che s’instaurò per più di un secolo tra molti artisti europei e le creazioni delle culture non occidentali, che a Roma dialogano tra loro nella mostra “Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il primitivismo nella scultura del Novecento”, ospitata nelle Terme di Diocleziano fino al 20 gennaio 2019.
L’imponente architettura delle Terme è già da tempo utilizzata per rassegne di scultura moderna e contemporanea, come ha ricordato la Direttrice del Museo Nazionale Romano Daniela Porro, ma questa “contaminazione” tra epoche lontane in questo caso si allarga a paesi lontani, evidenziando attraverso 80 opere l’attrazione dell’arte occidentale verso gli “altri”, verso i popoli diversi, i cui manufatti trasmettono non di rado un senso di spiritualità magico-religiosa, che ci rimanda all’infanzia dell’essere.
Gli artisti che si sono immedesimati con gli “altri” sono stati ispirati soprattutto dalla semplificazione e dalla forza espressiva delle immagini africane, oceaniche, asiatiche, o dei popoli americani precolombiani e forse non sempre ne hanno capito il profondo significato. Del resto l’antropologia era una scienza ancora giovane, anche se a partire dalla seconda metà dell’Ottocento vi fu una vera esplosione di raccolte di oggetti etnici, portati in Europa da viaggiatori e missionari, e ancora prima, nel tardo Settecento, si era diffuso grazie a Jean-Jacques Rousseau il mito del “buon selvaggio”.
L’impressione che si ha è che a cavallo tra Ottocento e Novecento, soprattutto a Parigi, ci fu una feconda apertura culturale verso l’arte etnica e che molti artisti occidentali abbiano voluto rifiutare la formazione classica in un anelito di libertà, perché sentivano l’esigenza di rompere con il passato e di aprirsi a nuove esperienze. Sintomatica di questo cambiamento è l’affermazione di Georges Braque del 1954: “Le maschere africane mi aprirono un nuovo orizzonte. Resero possibile il contatto con l’istinto, con un sentire disinibito che andava contro la falsità di un’odiata tradizione”. Un aspetto interessante della mostra è che, ancora prima di ammirare le opere esposte nelle Grandi Aule delle Terme di Diocleziano, ci accolgono alcune frasi di artisti e intellettuali del Novecento che evidenziano il loro pensiero sull’arte dei popoli “selvaggi”.
Notiamo in particolare che all’epoca si usava il termine “negro” senza alcuna valenza negativa. Il critico d’arte tedesco Carl Einstein, per esempio, nel 1915 scriveva: “Poiché la scultura dei negri è autonoma e oltremodo potente, il sentimento di distanza che si ha verso di essa esige un’arte di prodigiosa intensità”. Autore del trattato Negerplastik, fu lui a organizzare a Berlino e a Dresda una mostra di Picasso, le cui opere erano affiancate da sculture africane, opere che lo stesso Picasso amava collezionare e che furono alla base della sua rivoluzione cubista. Lo scultore e pittore francese Aristide Malliol, da parte sua, nel 1937 affermava: “Dobbiamo essere sintetici. Quando eravamo giovani, lo eravamo naturalmente, così come lo erano gli scultori negri che riducevano venti forme in una sola”.
Di Alberto Giacometti, presente in mostra con un bronzo del 1935, è una frase del 1963, che in realtà suscita qualche perplessità: “La scultura dell’Africa o dell’Oceania, un fare teste grandi e piatte, è molto più vicina alla visione che in realtà si ha del mondo che ogni scultura greco-romana”. È vero che la figura umana nella statuaria greco-romana è spesso idealizzata, per esempio quando ci mostra divinità, atleti e imperatori, ma si tratta di un’arte assolutamente vicina al vero e quindi comprensibile da tutti, mentre non di rado l’espressione di certe teste esotiche è esagerata, o addirittura grottesca, e il corpo umano è deforme, come altri artisti hanno dichiarato, pur trovando in questa “deformità” una fortissima carica di energia e di vitalità.
L’esposizione, curata dall’antropologo Francesco Paolo Campione e dalla storica dell’arte Maria Grazia Messina, così da avere un duplice punto di vista, ci fa conoscere una vera e propria rivoluzione artistica, che non si limitò alla scultura (nel campo della pittura non possiamo non ricordare Gauguin, che addirittura scelse di vivere a Tahiti). Nella mostra manca Modigliani, ma sono presenti molti maestri che si lasciarono influenzare dall’arte “primitiva”: oltre a Giacometti e Picasso, che sono citati nel titolo, troviamo Braque, André Derain, Jean Arp, Ioan Mirò, Max Ernst, Ernst L. Kirchner, Man Ray, Marino Marini, Enrico Baj, Mirko Basaldella, Pietro Consagra, Arnaldo Pomodoro e altri.
Le loro opere sono messe in relazione con manufatti etnici che vanno dal XV al XX secolo, tra cui idoli, raffigurazioni di antenati, bambole, maschere, pilastri e oggetti rituali realizzati con i più svariati materiali, compresi capelli e ossa umane intagliate. Un cranio di bambino, rimodellato con argilla e dipinto, ha al posto degli occhi due cipree. Proviene dalla Nuova Guinea (Melanesia, etnia Iatmul) e aveva lo scopo di mantenere il suo ricordo presso i familiari. Un manufatto in legno della fine del XIX secolo, proveniente pure dalla Nuova Guinea (etnia Kopar), raffigura un antenato che era conservato nella Casa degli Uomini. Si riteneva che gli spiriti incarnati nelle sculture di questo tipo svolgessero una funzione oracolare in occasione di guerre o di cacce.
Dal Gabon (Africa, etnia Fang) proviene un Byeri, ovvero una scultura che incarnava un essere spirituale che aveva il compito di custodire le reliquie degli antenati. I Byeri venivano unti regolarmente con oli vegetali e una volta l’anno venivano vivificati con una cerimonia iniziatica. Dall’etnia Dogon del Mali (Africa) proviene una figura in legno del Maestro di Ogol (XVIII-XIX secolo) raffigurante un essere spirituale benevolo, chiamato comunemente Nommo. Conservata su un altare dedicato ai defunti del clan, la scultura era periodicamente oggetto di libagioni.
Ma se in casi come questi gli antenati sono oggetto di culto, altre volte bisogna difendersi da essi. Dalla regione indiana di Nicobare (etnia Shompen) proviene una figura accovacciata in legno e tessuto che veniva collocata all’interno delle abitazioni o sulla soglia per proteggere gli abitanti dagli spiriti malevoli dei defunti. Questi non sono che alcuni esempi di sculture che ci introducono in un universo simbolico assai diverso dal nostro e ad arcaiche tradizioni, riti e cerimonie che ormai stanno scomparendo, e che denotano da parte di alcuni popoli la ricerca costante di un contatto con l’invisibile.
Sono queste le opere che indubbiamente trasmettono più emozione e curiosità, anche se le figure femminili bronzee di Marini (Danzatrice, 1953), Giacometti (L’Object invisible, 1935) e Derain (Femme au long cou, 1940) suscitano ammirazione, come pure la donna accoccolata in arenaria (Hockende Frau, 1910) di Kirchner, o la Gorgone (1915) in gesso dipinto di Adriana Bisi Fabbri. L’innamoramento dei grandi maestri del Novecento per le culture “altre” si estese all’arte popolare, a quella infantile e all’art brut (arte grezza), pure presenti in questa esposizione che, come ha evidenziato Francesco Paolo Campione, “oltrepassa le paratie della visione storico-artistica per orientarsi decisamente verso il discorso dell’antropologia dell’arte”.