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Time after Time tra Gilardi e McCurry. Tra tempo oggettivo e soggettivo
Nella mostra Time After Time organizzata dal Lu.C.C.A. fino al 5 Settembre 2010, si cerca di far vivere al fruitore del museo una propria esperienza temporale, ponendolo di fronte a opere molto differenti tra loro che esprimono diversi approcci al problema del tempo.
Il Tempo in arte è sempre una tematica delicata e chimerica, come in filosofia. Moltissimi gli artisti che vi si confrontano, o che in un modo o nell’altro includono questo tema nella loro opera, più o meno intenzionalmente. Ma il tempo sottintende alla totalità della condizione umana e non è alienabile da alcuna esperienza; l’esperienza artistica non fa differenza, né per l’artista, né per lo spettatore.
Possiamo suddividere le creazioni artistiche in due grosse branche “primeve”: quelle che si espandono nello spazio, e quelle che si estendono nel tempo. Al primo gruppo appartengono la scultura, la pittura e le arti figurative; al secondo la musica, la poesia e anche la video-arte (che ha dilatato l’esperienza del figurativo nell’estensione temporale).
Quando ci si approccia ad un’opera artistica si immergono sempre i piedi nel fiume di Eraclito, e l’effetto immediato che se ne ottiene dipende sia dall’opera stessa, che da noi. Non esistono esperienze uguali, solo sensazioni paragonabili, che di volta in volta si ridefiniscono in base agli infiniti cambiamenti delle acque della corrente in cui siamo immersi in quel momento.
(Questo a meno di quegli squarci nell’Infinito, di quelle esperienze trascendenti che sono così rare, che travolgono il tempo e lo sorpassano con un sol balzo, cui mi riferivo parlando dell’Enigma d’Autunno di De Chirico)
È importante puntualizzare che le opere esposte non hanno necessariamente come tema originale il “tempo”, anche se nascono comunque da artisti che hanno ben ponderato la questione, a monte. Il tema del tempo nasce nella giustapposizione delle produzioni in mostra e dei loro modi di esprimersi.
Al primo piano abbiamo le opere di Piero Gilardi, tratte dalla serie dei “tappeti natura”: deliziose ricreazioni in poliuretano espanso di segmenti di natura, come estratti da ricordi d’infanzia o maturità, e amorevolmente ricreati a mano.
Qui il tempo è di sogno. Queste coloratissime creazioni plastiche ci ricordano paesaggi dell’infanzia (la nevicata in campagna, la passeggiata sul greto del fiume con le pietre scivolose, quella misteriosa pietra nel bosco…) filtrati attraverso un’accurata riproduzione di piante e frutti.
Nascono così Angurie, Neve sull’aia, Romanico e ortensie, il Megalite nel bosco, la Spiaggia bretone, il Gabbiano (congelato sulla breccia d’un’onda), realizzate dagli anni ’60 ad oggi.
Ma come in un sogno, il voler afferrare queste visioni le spezza con il retrogusto metallico del reale: allungando la mano a voler toccare le opere (con gran merito al Lu.C.C.A. che addirittura ci incoraggia a farlo) ci confrontiamo con la ruvidezza plastica del materiale, che ben poco ha della morbidezza delle scene proposte. Emblematico passare le dita tra l’erba: così soffice a vedersi, così ruvida e ispida al tatto.
Ciononostante l’esperienza multisensoriale è intrigante; sembra di trovarsi di fronte a bolle di tempo e ricordi preservate dall’amore di un abile artigiano, addobbate dai suoi desideri e dalla sua percezione del tempo.
Al secondo piano invece sono esposte le fotografie di Steve McCurry, con il suo sguardo tipicamente incentrato sull’oriente. Fotografo di meritata fama mondiale, ha girato il mondo riportandoci immagini splendide di guerra e pace, dove gli uomini sono sempre al primo posto.
In lui il problema del tempo è apparentemente di semplice risoluzione: la fotografia, per definizione, è un attimo rubato al divenire. Ma in realtà, non è così semplice: per quanto si possa trarre quell’attimo dalla corrente del fiume, delle sue acque esso è per sempre intriso.
Ed è così che, accanto a splendide visioni (sia per tecnica che per gusto cromatico) del Taj Mahal, dei bambini indiani, della vita nel deserto e delle colombe di fronte alla moschea di Mazar-i-Sharif, abbiamo una serie di ritratti l’uno più profondo dell’altro.
«I look for experience etched on a person’s face» (“cerco l’esperienza incisa sul volto di una persona”) dice lo stesso McCurry, e si deve concedere che l’obiettivo sia stato raggiunto: questi primi piani o mezzi busti lasciano che sia il volto dei soggetti a parlare, senza che il fotografo apporti alcunché di personale. Il rispetto per il vissuto dell’altro è totale.
Sono gli occhi, specchio dell’anima, gli attori di questo soliloquio: grazie a focali strettissime, una resa cromatica straordinaria e dettagli fuori dal comune, questi sguardi parlano muti di esperienze a noi non comprensibili per la distanza dei mondi vissuti (sono qui esposti ritratti di pastori e nomadi medio orientali), ma comunque semplici e forti, assaggi immediati di condizione umana.
In quest’ambito, l’esposizione dedica una stanza intera alla famosa foto della bambina afghana terrorizzata dalla guerra (Afghan Girl, 1984): quella che è una delle foto più famose al mondo è stata assunta a simbolo di un popolo in tribolazione, degli orrori della guerra e delle sofferenze dell’infanzia violata, tutto riflesso in due occhi più belli di qualsiasi pietra preziosa.
Questa bambina fu ritrovata per caso, si dice, dallo stesso McCurry 17 anni dopo aver scattato quella foto, e ormai donna, fotografata di nuovo. Il suo nome è Sharbat Gula, e il museo ci propone giustapposte, una accanto all’altra, le sue due foto da adulta e da bambina.
L’effetto è quasi commovente. Se da un lato abbiamo una bambina bellissima e terrorizzata (le pupille sono così strette, come capocchie di spillo), dall’altro c’è una donna dalla bellezza soffocata nel suo ambiente circostante, cinta nel suo burqa, che porta sul volto i segni della vita; come ognuno di noi.
Ma la sua vita, quella di due occhi adesso più velati di prima, ma che ancora lottano per sopravvivere, ha lasciato segni evidenti. Possiamo solo congetturare che cosa si nasconda dietro il naso divenuto adunco, dietro la peluria delle sue ciglia e dietro le macchie sui suoi zigomi. Il passaggio all’età adulta, quel delicato e fragile periodo in cui l’innocenza viene perduta, è nascosto da quei 17 anni di anonimato che separano le due fotografie come un fiume in piena.
Gradite aggiunte alla mostra sono le opere di Giuliano Ghelli. Qui abbiamo dipinti su tela, anch’essi coloratissimi nella predilezione per i colori purissimi e i soggetti quasi da illustrazione di libro per l’infanzia.
Nelle opere di Ghelli ritroviamo mescolati senza ritegno tutta una serie di simboli che rimandano alle più svariate tradizioni artistiche: da prestiti leonardeschi con cavalli e macchine, agli alberi del Barone Rampante di Calvino, a citazioni del Golconda di Magritte, da “spiralate futuriste” a simbologie aborigene del Tempo del Sogno, attraverso porte che si aprono su paesaggi della memoria e della fantasia, o sparse a colonizzare spazi infiniti.
Il divertito modo di porsi dell’artista nei confronti della sua materia lo porta a fondere tutte queste suggestioni in una poetica personale, a farle proprie utilizzandole come tessere con cui illustrare il suo momento storico personale.
Anche l’invasione dei busti di terracotta disposti nel sottosuolo dell'edificio ci comunica una voglia di creare libera e sbarazzina, divertita e sincera (“piovono sogni, lasciatemi bagnare” reca in rilievo uno dei tanti busti).
Infine, questo museo ci concede contemporaneamente alla mostra anche una kermesse di video arte con artisti a rotazione, 8 minuti dal Sole, 1 minuto dalla Luna, a voler completare la rassegna sull’arte che duella col tema del tempo.
In conclusione, è da lodare il tentativo dei curatori di stimolare una fruizione più consapevole dello spazio museale; una fruizione più coinvolta e amichevole che porti opera e artista sullo stesso piano dello spettatore. L’arte contemporanea ben si presta a questo tentativo: comunque sia, essa si dice “contemporanea” proprio perché figlia del suo tempo, ed è con esso che deve fare i propri conti.
Il lavoro dell’artista contemporaneo non si conclude con il completamento dell’opera, ma continua nell’eventuale ricchezza d’interazione che essa può dare al suo fruitore. Da confronti come questo ognuno ne può uscire arricchito; l’importante è non tirarsi indietro, ma condividere un pezzo di strada e alcuni frammenti di tempo.