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As soon as possible. La spirale del tempo mutato in spazio
ASAP: acronimo spesso utilizzato per sollecitare il soddisfacimento di una richiesta, pretendendo che essa passi immediatamente in cima alla lista delle priorità altrui, sovente senza avere la cognizione di causa di cosa ciò comporti, o il minimo rispetto necessario. Questo è solo un esempio banale della compressione sensoriale e mentale che la vita contemporanea ci impone, ed è anche il titolo della mostra in corso al CCCS a Firenze, fino al 18 luglio 2010.
I progetti espositivi del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina (presso il Palazzo Strozzi) hanno sempre un forte accento sociale, con la palese intenzione di stimolare il pensiero sul tema di turno. Queste esposizioni sono eventi culturali, che riescono a sfruttare le caratteristiche sociali e intellettuali dell’arte contemporanea, contestualizzandola a dovere.
In questa contestualizzazione si potrebbe anche dire che l’intento degli artisti è più palese, e queste mostre si rivelano degli ottimi punti d’entrata anche per coloro che affermano di sentirsi incapaci di “comprendere” l’arte contemporanea.
Stavolta il tema prescelto è uno sempre attuale: la percezione del tempo nella vita quotidiana. L’accento è ovviamente posto sull’alta velocità, e il concetto di base è che nella società odierna il tempo è una risorsa e un bene finito, che si cerca senza sosta di incrementare.
Ma questo sforzo è coronato da un paradosso, poiché ogni progresso tecnologico che rende più veloce ed efficiente un qualsiasi processo sociale o lavorativo non fa che aumentare ancora il tempo di metronomo della danza suicida a cui ogn’ora danziamo.
Il sistema formato dalle regole del gioco sociale umano, infatti, è basato sul concetto di profitto in senso lato: profitto economico, certo, ma anche profitto sociale (status). Esso sembra essere determinato dal numero di obiettivi raggiunti rispetto al tempo impiegato per raggiungerli. Da qui una perenne accelerazione: più un individuo “ha tempo” più è tenuto a impiegarlo per raggiungere obiettivi ritenuti degni socialmente (o economicamente).
Il paradosso di cui sopra è pertanto sempre in agguato: sebbene oggi ogni compito possa essere svolto con una rapidità inusitata, il tempo che ci rimane per svolgere le nostre funzioni “vitali” è sempre più ridotto all’osso.
Giustamente, si porta Internet come esempio epocale di quest’accelerazione. Tacendo della rivoluzione nei rapporti lavorativi e nella gestione aziendale (email) che pur tocca nel vivo centinaia di milioni di persone, si pensi all’accelerazione impressa al ciclo dei rapporti sociali: tramite la rete, una persona non è più conosciuta per la sua presenza reale, ma in base ad una presenza virtuale incompleta, che è molto più velocemente “comprensibile” perché priva di molti di quegli aspetti che formano la totalità di un individuo.
I rapporti stabiliti sono così parziali e letteralmente superficiali, al di là delle apparenze. Possono nascere e morire nel giro di pochi giorni o ore. Questa si chiama “svalutazione” – della personalità.
Oppure consideriamo l’ambito della conoscenza: la rete è una miniera senza fondo d’informazioni, ma proprio per questa sua gratuità e semplicità esse vengono fruite con leggerezza, generando milioni di byte di informazioni parziali, quando non errate. Non c’è più una barriera filtrante; è il bello dell’anarchia. Ma come è stato affermato, «information is not knowledge».
Queste tematiche sulla rete vengono esposte tra l’altro (in forma di brevi “dati di fatto”) nella prima stanza dell’esposizione, come ottima introduzione all’argomento. Qui possiamo anche ammirare un vecchio filmato degli anni ’20 (era surrealista) di riprese soggettive di montagne russe: scelta azzeccata, perché quella sensazione di velocità che all’epoca si cercava di riprodurre usando con la meraviglia di un bambino la tecnica del cinema appena nato, oggi la proviamo ogni istante della giornata nel vorticoso saliscendi del quotidiano.
Nella seconda stanza, la prima opera vera e propria: Secret Life di Reynold Reynolds. È composta da due brevi filmati proiettati sui due lati di uno schermo appeso nel centro dello spazio, e raffigurano un personaggio femminile immerso in un ambiente rigoglioso di vegetazione, che si muove compiendo gesti quotidiani. I tempi dei due filmati sono differenti: in uno osserviamo a crescita della vegetazione con la donna al suo interno; nell’altro la donna perpetrare i propri gesti con animalesca e ripetitiva enfasi, quasi divorata dagli stessi, che siano mangiare la polpa di un melone, pettinarsi o giacere in terra tra frutti vari.
Si nota bene qua lo sfasamento tra il tempo della natura e quello dell’individuo: quando i due si allontanano troppo, nascono patologie. Lo affermano le medicine naturali da millenni. Ma qui c’è anche un’altra variabile da tener di conto, che minacciosa controlla tutto dall’alto, simboleggiata da vari orologi presenti nel campo di scena: la tecnologia e il tempo da essa imposto.
Le opere esposte infatti si incentrano più che altro sull’uso della tecnologia e sul suo effetto, e si pongono su un piano più materiale che (per così dire) filosofico. Non per questo comunque hanno minor chiarezza.
Ad esempio, un’ottima metafora della condizione umana è Zeit ist keine Autobahn, di Michael Sailstorfer. L’opera è composta da un motore elettrico che fa ruotare un pneumatico a contatto forzato con la parete dello spazio espositivo: il risultato è che la ruota si consuma e detriti cadono in terra. Maggiore lo sforzo per aumentare la velocità, maggiore l’attrito, e la candela brucia più rapidamente.
Nella stessa stanza, Accelerator di Marnix de Nijs. Quest’opera è un videogame/installazione composto da un seggiolino rotante con joystick, con uno schermo montato davanti alla seduta sul quale è proiettato un paesaggio urbano a 360° di un’anonima grande città, ruotante. Ci si può sedere e cercare di far ruotare il seggiolino all’unisono con il filmato, muovendo il joystick in modo opportuno. Ogni volta che ci si riesce si è portati a un livello successivo, dove la velocità è incrementata.
Anche qui, si può sperimentare bene la regola (negli scritti del catalogo spesso si usa il termine “diktat”) di stare al passo coi tempi, e che ogni volta che si riesce ad armonizzarsi come si può ad una situazione al limite, le maglie si fanno più strette e si deve ricominciare daccapo di nuovo, all’infinito. Le richieste aumentano sempre più.
Gli effetti? Il più palpabile è lo stress, poi l’alienazione e lo straniamento. Basta entrare nella stanza adiacente, ov’è proiettato il filmato Normal di Tamy Ben-Tor, per rendersene conto. La breve proiezione consta solo di un mezzobusto dell’artista che interpreta uno dei suoi personaggi (calandovisi perfettamente): in questo caso una newyorkese oltre l’orlo della crisi di nervi, col naso rosso e gli occhi lucidi, persa in un eloquio incessante e quasi incomprensibile, dove elenca senza soluzione di continuità i suoi impegni e le sue comunicazioni con email e messaggi. L’effetto è quasi divertente nella sua parodia spietata, se non fosse che quello che si sta rappresentando è lo stato interno di moltissimi individui ingabbiati in una vita senza significato, da vivere in un vortice.
Altre opere comunicano bene l’intreccio di tecnologia e velocità “più che umana”. La graziosa installazione di Julius Popp, bit.fall, dove assistiamo alla caduta di parole formate da gocce d’acqua (reali) create da un algoritmo che estrae le parole chiave più usate al momento sulle ricerche di Google. Difficilmente si riesce a leggere le parole più lunghe, a causa della velocità con cui cadono.
Oppure la performance/filmato Standard Time, di Mark Formanek, dove un gruppo d’operai costruisce con delle tavole di legno, nell’arco delle 24 ore, le cifre di un orologio digitale, alterandole ogni minuto per far sì che la costruzione indichi sempre l’ora corrente. Se non si riesce a realizzare un “minuto” in tempo, si passa al successivo. Il tempo non aspetta l’uomo.
Poi abbiamo il berlinese Fiete Stolte, che ha reagito a modo suo a tutto questo stato sociale: ha deciso di avere un giorno in più alla settimana, e pertanto ha “tolto” 3 ore ad ogni giorno per formarne un altro. Adesso (da qualche anno) lui vive una settimana di 8 giorni di 21 ore. Questo lo porta ad uno sfasamento del suo ciclo rispetto a quello circadiano naturale, che aumenta sempre più man mano che ci avviciniamo al centro della settimana, e che lo costringe a orari di sonno/lavoro completamente sfasati.
Tra le opere italiane, Quando la strada guarda il cielo, di Marzia Migliora, ricorda una figura dell’eroismo tragico dei nostri giorni, il ciclista Marco Pantani, imprimendone una citazione su un tappeto costruito appositamente per l’occasione. «Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia»: la vicenda umana del campione è un ottimo simbolo di una vita sgranocchiata dagli ingranaggi del sistema sociale, in una velocità sovrumana sia nel fisico che nell’emotività e nel metabolismo, fino all’estrema disfatta.
Arcangelo Sassolino invece ha costruito un’installazione, Dilatazione pneumatica di una forza viva, dove dell’azoto sotto pressione fa scoppiare, imprevedibilmente, una bottiglia di vetro, che poi viene ogni volta sostituita. Il clima di attesa che si genera non ci ricorda forse che siamo noi ad essere immersi in un’atmosfera che rischia di schiacciarci in ogni istante?
Ma c’è ancora un’opera in mostra, che offre un’altra possibilità. È la serie Seidenstück di Jens Ritsch, composta da tre piccole “sculture” formate da un sottilissimo filo di seta annodato un numero incalcolabile di volte. L’artista parte da un filo lungo circa 1 Km, e comincia a farvi dei nodi. Il processo continua per più “generazioni” finché non è possibile far più alcun nodo.
Il risultato è una piccola scultura che ricorda le formazioni coralline, quasi un’arborescenza che par fiorire di vita propria. Ognuna di queste opere richiede una quantità infinita di tempo, circa 3/4 anni di lavoro (accuratamente pianificato e documentato).
Qua la tendenza è opposta: si torna a metodi manuali (come i vecchi intrecci di vimini per ceste e sedie) da affrontare con pazienza senza curarsi di quanto tempo sarà necessario per terminare l’opera. È una sorta di “slow art”, un elogio della lentezza che a ben guardare è comunque figlio dei nostri giorni, ma resiste in qualche modo alla corrosiva velocità imperante.
In sostanza quindi, questi artisti hanno degnamente documentato gli effetti dell’accelerazione nella società odierna; non vi sono qui considerazioni spirituali o filosofiche di grossa portata, ma un’accurata rappresentazione dello stato dei fatti.
Il problema del tempo, che classicamente (da S. Agostino alle filosofie orientali) si era sempre incentrato sul concetto di “eternità” (cioè sull’assenza del tempo, come modalità di un’esistenza superiore) adesso si trasforma nel problema dello spazio, sia esso fisico che mentale, che deve essere percorso sempre più rapidamente. In realtà, da questo vortice non v’è uscita: l’accelerazione trascina soltanto verso il suo centro e aumenta sempre più.
L’unica possibilità è un’uscita verticale, staccandosi dal piano su cui queste forze agiscono per entrare in un altro stato, creando un sistema che sia di nuovo sostenibile umanamente. Prima che le maglie si sfaldino del tutto, e che scompariamo nel gorgo del tempo che si avvolge su se stesso.