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Venezia 68. Ruggine di Daniele Gaglianone e lo sguardo obliquo di Timi
Apre le Giornate degli Autori alla 68° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia l'ultimo film del regista di Pietro (2010), Daniele Gaglianone (1966). Si chiama Ruggine, l'ossidazione del ferro come quella che avvolgeva i due silos dove i protagonisti da piccoli – ed interpretati da adulti da Valeria Solarino, Stefano Accorsi, Valeria Mastrandrea – si rifugiavano per delle esperienze di gioco nella periferia di Torino (girato a Taranto invece), abitata soprattutto da immigrati meridionali alla fine degli anni '70. La parte più inquietante del Dottor Boldrini va a Filippo Timi, obliquamente delirante nel suo silenzioso percorso attoriale sulle note disfacenti e altrettanto ossidanti - e quindi consone a riverberare la polverina scura aranciata che si libra nell'aria - delle Luci della Centrale Elettrica.
In questa zona degradata entra la Mercedes 250 del Dottor Boldrini, accostandosi ad una bambina, aiutandola con la bicicletta, riportandola a casa. L'inizio della tragedia che forse si poteva prolungare meno, perchè il film è denso di questa storia che non racconteremo per intero ma che va accennata. Tutto ruota intorno ai due silos arrugginiti dove Carmine (da adulto interpretato da Valerio Mastrandrea, il capetto del gruppo di ragazzini; Sandro (Stefano Accorsi da adulto) e Cinzia (Valeria Solarino da adulta) si inoltrano per svagarsi in mezzo a pericolosi rottami. Lì vicino, Boldrini farnetica e intona “Una furtiva lacrima” da L'elisir d'amore (1832) di Gaetano Donizetti, questo passaggio indica che Nemorino si è accorto dell'amore che Adina prova per lui: è del tutto grottesco quando sappiamo che nel delirio, lì accanto, vi è una bambina e che quello è il medico di famiglia, di tutta quella (povera) gente ammassata in quartieri che si chiamano per tragica ironia Alveari, buchi dal quale uscire la mattina e ritornare la sera.
La ruggine dappertutto: frana dal soffitto del silos mentre i due bambini (Sandro e Cinzia) giocano, un po' innamorati l'uno dell'altra come possono esserlo i bambini, per retrovie, cenni, in questo deserto in cui la spolverata di ruggine dal soffitto, bronzea, sembra quasi assomigliare all'oro, soltanto un po' più scura.
Flashback in avanti. Carmine adulto stà peggio: inveisce contro tutto, magari dicendo parecchie verità, ma intanto si distrugge e paga la sorella Rosaria i debiti che lascia. Sandro gioca al Drago nero immedesimandosi troppo col suo bambino; Cinzia partecipa a degli scrutini in cui gli insegnanti provano ben poca pena per quel che si nasconde dietro dei comportamenti deviati dei loro studenti. Tutti e tre accomunati dall'esperienza dell'orrore; tutti deliranti a loro modo, arrugginiti e fermi, sono diventati una foto still di loro stessi, fissa sul momento cieco mentre guardano l'abisso.
Ripreso dall'omonimo libro di Stefano Massaron (Einaudi)con cui il regista si è trovato in piena sintonia per esperienze ed un sentire comune, è d'obbligo una lode per Filippo Timi come Dottor Boldrini che impersona un personaggio sfuggente, angolare, allucinato e che mai esce dal suo ruolo, misurato e a tratti drammaticamente istrionico: tanto da richiamare alla memoria Gian Maria Volonté in Todo modo (1975) di Elio Petri, quantomai graffiante e grottesco ed a ricordare che i “rispettabili”, come qui, lo sono solo di facciata.