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Wajda inedito in Italia, l’intenso e angosciante Tatarak – Sweet Rush
Di questi tempi la distribuzione italiana sconta un immenso gap culturale con paesi come la Francia, la Gran Bretagna, la Germania, solo per citare quelle nazioni in cui la curiosità del pubblico si sposa con un ruolo più attivo e maturo sia da parte delle istituzioni che degli stessi canali commerciali. Da noi per il cinema d’autore europeo si rischia il deserto. Lo strapotere del colosso hollywoodiano è ovviamente fuori discussione. E se cinematografie che non siano quella francese, quella inglese e talvolta quella spagnola risultano quasi completamente e colpevolmente ignorate, oppure ghettizzate, lo stesso si può dire per autori che hanno fatto la storia del cinema, senza che le loro opere più recenti continuino a beneficiare degli stessi spazi avuti in passato. Uno di questi autori è senz’altro Andrzej Wajda.
Ben vengano allora iniziative come quella architettata dall’Associazione Culturale Sentieri del Cinema, che si è mossa per proiettare in alcune città (Firenze, Roma, Milano) proprio uno degli ultimi film di Wajda, Tatarak (Sweet Rush), in lingua originale con i sottotitoli. Per quanto riguarda Roma è stato il Cinema Kino, realtà sempre molto attenta nei confronti di simili offerte culturali, a raccogliere l’invito, proponendo quest’opera cinematografica indubbiamente complessa nelle serate del 21 e 22 novembre. Nonostante l’interesse riscontrato presso critica e pubblico al Festival di Berlino del 2009, Tatarak era infatti rimasto inedito in Italia; mentre ad esempio il precedente Katyn (2007) aveva usufruito di una seppur minima visibilità, a livello distributivo. Tutto ciò ci sorprende fino a un certo punto. Con Katyn il grande cineasta polacco, cui si devono capolavori come I dannati di Varsavia (1957), era tornato non a caso ad affrontare i grandi temi della storia contemporanea. Al contrario Tatarak propone un ripiegamento su posizioni più intimiste, su sofferenze interiori ammortizzate da una cornice meta-cinematografica, in cui il vissuto personale si fonde con determinate ascendenze letterarie. Già questo dovrebbe far capire come fosse più complicato, nel panorama così asfittico delle sale italiane, piazzare un film del genere.
Eppure, tornando alle differenze tematiche, ci sembra che nella filmografia di Wajda la “monumentalità” di certe opere tenda a sfumare sempre in sguardi più introspettivi, frutto di un umanesimo viscerale, fino a farsi negazione di quella stessa monumentalità: in tal senso L’uomo di marmo rappresenta un episodio emblematico. E a L’uomo di marmo vogliamo fare ancora riferimento, incidentalmente, perché l’attrice che ne fu protagonista è la stessa Krystyna Janda, che abbiamo ritrovato ora in Tatarak. Interprete sopraffina nonché vero epicentro emotivo di un lungometraggio affetto da sindrome bipolare: alla traccia narrativa originaria, ispirata a un’opera di Jaroslaw Iwaszkiewicz ambientata nel dopoguerra così come a un racconto di Sandór Márai, si sovrappongono infatti i monologhi della stessa Janda, ripresi con la camera fissa in un interno rimodellato di volta in volta da penombre e raggi di luce; tali monologhi, inerenti alla malattia e alla tragica scomparsa del marito dell’attrice, Edward Klosinski, cui il film è idealmente dedicato, introducono anche la presenza di un set cinematografico in cui la figura di Wajda viene citata più volte. Realtà, meta-cinema e derivazioni letterarie si intrecciano quindi indissolubilmente, in un gioco di scatole cinesi che può lasciare anche un po’ storditi.
Se infatti i monologhi della Janda finiscono quasi inevitabilmente per appesantire la struttura di un film quanto mai disturbante, scorbutico, a tratti prolisso, quel cortocircuito tra i diversi livelli della narrazione riesce comunque ad essere seducente, nel suo essere foriero di angosce profonde e di ansie facili da condividere. Con una cittadina addormentata sullo sfondo, con le acque del fiume in cui si rispecchiano i desideri dei protagonisti, il personaggio interpretato nella finzione letterario/cinematografica dall’attrice, rapisce da subito lo sguardo dello spettatore: donna di mezz’età minata nel fisico da una malattia di cui è ancora all’oscuro, colta, madre di due ragazzi morti nello scontro con la Germania nazista, sposata a un medico più grande di lei ma ancora attraente, si lascerà volentieri irretire dal vitalismo di un giovanotto del posto, fisicamente gagliardo e di animo semplice. La paura di invecchiare, un senso di morte incombente, queste e altre ombre andranno presto a depositarsi sull’aurorale passione, sbocciata ai bordi della fitta vegetazione fluviale. Acque rinfrescanti, acque potenzialmente letali, che saranno testimoni dell’insanabile contraddizione tra l’aspirazione a vivere e la fatalità di un destino scritto in quelle stesse correnti, capaci di trascinare la vita sul fondo in un finale dall’incomparabile spessore emotivo.