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Antony. L’insostenibile fragilità dell’essere
L’uscita del mini Another World (5 tracce inedite, di cui solo la title track sarà inserita nel disco in uscita i primi del 2009) ci offre lo spunto per spendere due parole su quella che è una delle personalità (e delle voci) più stupefacenti della odierna scena della canzone d’autore.
Chiariamo subito un fatto: il mini in oggetto non aggiunge nulla a quanto l’artista ha già affermato con i lavori precedenti. Delle cinque canzoni, due scorrono destando relativamente poca presa nell’ascoltatore (le posizioni pari del disco, Crackagen e Sing For Me): fluiscono via leggere e innocue, anche se certo non fastidiose. Le altre tre invece, offrono uno spaccato decente del momento storico in cui versa Antony attualmente, ma non dissipano le nebbie per il disco a venire.
L’apripista del mini, Another World, è una canzone senza inizio e senza fine. Antony tesse una cadenza ripetitiva nell’aria, punteggiata da delicate note di piano, che si ripete sempre uguale: questa nudità si rivela quasi toccante nella sua fragilità, ricordandoci quanto Antony sia “vero” quando canta. Il suo caratteristico vibrato (il tratto che rende immediatamente riconoscibili le sue performance), sempre morbido e intenso riesce a riempire ogni nota di pathos, ma è come leggermente trattenuto quasi a non voler esagerare con l’espressione delle emozioni, trattenendo dentro di sé con delicatezza. La produzione generale, che sembra quasi una registrazione in presa diretta, aumenta questo senso di intimità; l’uomo solo col suo pianoforte sulle assi del palco in un teatro deserto.
Il pezzo più interessante, anche se riuscito non al 100%, è Shake That Devil, un esorcismo a ritmo rock blues pelle e ossa con sensibilità quasi voodoo nella sua danza sfrenata: Antony comincia snocciolando una nenia senza accompagnamento ritmico (con soltanto delle lunghe note di armonium come contrappunto, e poi qualche distorsione di fondo), sulla quale a metà canzone s’inserisce un ossessivo giro di batteria in 2/4 a scandire il ritmo della danza. Alcuni fraseggi grezzi di un sax sporco e ossidato rispondono alle invocazioni della voce, e il tutto si tramuta in un rito catartico. Questa dimensione più fisica mancava nel repertorio di questo autore; si spera che sia esplorata più a fondo nel futuro.
L’ultima traccia, Hope Mountain, è una pregevole narrazione cantata al piano dal testo visionario, senza eccessi di alcun tipo, ma con una sensibilità da canzone antica. In pezzi come questo e il primo si ha una notevole capacità di coinvolgimento, nonostante l’essenza piuttosto monocorde delle composizioni; l’energia smossa è minore rispetto al passato, in conseguenza della più composta esternazione di questi sentimenti. Ma questa non è necessariamente una critica.
A volte è il cuore di un artista, sempre lacerato dalla tensione volta all’espressione verso gli altri e trattenuto dalle catene della solitudine (che attanaglia da sempre gli spiriti creativi) che si fa più forte e riesce a gestire meglio lo scambio con l’esterno, perché un’espressione estremamente intensa delle proprie emozioni riesce certamente a raggiungere l’ascoltatore (l’“altro”), ma per conseguenza strazia anche colui che emette queste vibrazioni, che in lui nascono e in lui si manifestano in primo luogo.
Ad ogni modo, questa direzione artistica “pacata” si era già palesata col precedente full lenght in studio, I Am a Bird Now (2005), anch’esso un ritratto più composto dell’artista.
A dir il vero, il processo di mutamento percorso da Antony nell’intervallo che ha separato il primo eccelso disco in studio (omonimo, del 2000) dal secondo, il succitato I Am a Bird Now è piuttosto articolato. Negli anni intercorsi tra i due dischi erano successe un sacco di cose, e Antony è passato dall’oscurità dell’underground newyorkese allo status di guest star contesa da alcune delle più grandi star del music business mondiale.
Si narra infatti che Lou Reed, incuriosito dalla copertina del singolo I Fell in Love With a Dead Boy (Durtro 2001) lo acquistò per poi commuoversi all’ascolto di quella straziante canzone1. Quello, certo, era ancora il “vecchio” Antony, le cui emozioni uscivano laceranti dai vibrati delle sue corde vocali e i testi, crudi e diretti, ma mitigati da un approccio innocente come da bambino, arrivavano senza mezzi termini all’ascoltatore. Qui seguì una tournée come corista per Reed, che funse da vero e proprio “lancio” per l’artista per la conseguente esposizione mediatica. Da allora, le collaborazioni non si contano (ad esempio con Bjork e sul disco-hit mondiale Blind).
Volendo riassumere le impressioni avute all’uscita di I Am a Bird Now, si può dire che il disco era decisamente meno efficace e dirompente rispetto al debutto (e si notava un certo smorzamento del poderoso vibrato, caratteristica splendida del cantante sia a livello tecnico che espressivo, ma alquanto inusuale al primo ascolto e a cui bisogna fare l’abitudine), ma questa sua “espressione ridotta” può essere dovuta sia ad una maturazione personale e compositiva, come si accennava in precedenza (volendo intendere la concisione e la compostezza come doti), sia ad un ammorbidimento della proposta per attrarre un pubblico più vasto, viste le premesse mediatiche sviluppate in quel periodo. Difficile a dirsi, quale delle due possibilità sia corretta; probabilmente entrambe, in misura diversa. In ogni caso, il disco fu sopravvalutato da quasi tutta la critica. Il pezzo migliore era l'opener Hope There Is Someone, toccante lied sulla paura della morte in solitudine, dall'intensità quasi degna dei fasti delle produzioni precedenti, mentre le numerose collaborazioni, per quanto utili sull'aspetto promozionale, spezzavano un po' continuum stilistico. Degno di nota comunque il duetto con Boy George su You Are My Sister, realmente fraterno.
Continuando a riavvolgere il nastro del tempo, è giunto finalmente il momento di vedere cosa s’intende per “il vecchio Antony”, se così ci si può esprimere, visto che questo è un personaggio che non ha ancora raggiunto la maturità artistica, ed ha solo due full lenght all’attivo.
Se l’incontro con Reed rappresenta la svolta definitiva, c’era stato un altro punto cruciale nella carriera musicale di Antony, e fu la sua scoperta da parte di David Tibet, leader dei Current 93 e fondatore della casa discografica Durtro. Fu lui ad offrire il primo contratto discografico ad Antony e al suo gruppo (i “Johnsons”), realizzando prima uno split single e poi un full lenght. L’ultima uscita su Durtro fu un mini split live con Current 93 (Live at St. Olave’s Church, 2003 – 3 brani a testa), dove il nostro Antony realizza una performance a tratti da brividi lungo la schiena2.
Il full lenght di debutto, Antony and the Johnsons (2000), è una perla di rara intensità. Si compone di canzoni dalla struttura semplice ma molto efficace che s’imperniano interamente sulle performance vocali di Antony, con un accompagnamento di piano ed archi (quasi un “pop da camera”), un clarinetto e altri discreti strumenti. Non voglio qua indicare alcuna coordinata musicale (che sono tante e piuttosto facilmente individuabili), perché nessun riferimento e nessuna descrizione può comunicare l’intensità straziante di alcuni passaggi.
L’identità di Antony, che si esibiva come drag queen in alcuni club alternativi di new York, è qui spalancata di fronte a tutti gli ascoltatori senza alcuna titubanza, e da questa nudità scaturisce un’innocenza travagliata che commuove quasi: come nell’inno all’auto-immolazione di Cripple and the Starfish, dove la diversità incompresa mista a solitudine e ad un cuore sbrecciato vogliono smuovere montagne, o nell’oscurità suburbana di metropoli umane solo in apparenza, di Twilight.
Altrove, la diversità è sconcertata di fronte a se stessa, ma con sforzi sovrumani riesce a scavare verso una luce che nessuno sa quanto sia reale, o solo una pietosa illusione (Hitler in my Heart, che si apre con “As I search for a piece of kindness/And I find Hitler in my heart”, e si conclude con “From the corpses flowers grow” attraverso un “Don't punish me/For wanting your love inside of me”). Amore, desiderio, amicizia profonda, sensazioni religiose, estasi, diversità incomunicabili: difficile lasciarsi andare di più di così.
La forza dell’estro musicale si rivela negli arrangiamenti strumentali, che sia la splendida sezione di archi che preludia ad un crescendo vocale esplosivo in River of Sorrow, o l’ingresso in nostalgiche tonalità minori del violino su Twilight al momento del verso “will you ever return”.
Antony si trasfigura nell’atto artistico del canto, e diviene uno con le sue emozioni come i monaci medievali divenivano uno col Logos divino intonando il Sacro Canone; lascia che le emozioni lo torturino in un tremendo atto catartico personale, condito di nascosto con il masochistico piacere che si prova quando si è dissolti in emozioni di tale portata. Il suo essere androgino non abbisogna del sesso per individuarsi, e si tramuta in una sorta di angelo terreno che riesce a mantenersi puro anche in mezzo alla sporcizia.
Note:
1La versione più realistica dei fatti è che fu il produttore di Reed a fargli ascoltare il disco, al che lui volle Antony per il suo The Raven. La copertina del disco è comunque realmente singolare! (torna al testo)
2Sempre nel “periodo Durtro”, Antony incide alcuni brani per un disco mai realizzato di Micheal Cashmore, storico collaboratore di David Tibet, alcuni dei quali verranno pubblicati nel 2007 sull’ep The Snow Abides, a nome Cashmore. Quest’ultimo ha scritto tutte le musiche, Tibet i testi, e Antony ha prestato la voce. Con un team del genere, l’esito più che felice era praticamente scontato. (torna al testo)