Auditorium. La geometria greca dei Van Der Graaf Generator

Articolo di: 
Teo Orlando
VDGG

Il 3 maggio 2022, dopo undici anni dalla loro ultima "apparizione" romana (era il 4 aprile 2011), i Van Der Graaf Generator tornano ad esibirsi nella stessa Sala Sinopoli dell'Auditorium Parco della Musica che li aveva visti protagonisti di un memorabile concerto che andava ben al di là dei confini del rock progressive, etichetta che ormai li contrassegna fin dai loro lontani esordi nel 1969, con l'album The Aerosol Grey Machine.

I tre musicisti ultrasettantenni, Peter Hammill, Guy Evans e Hugh Banton, fanno il loro ingresso sul palco con geometrica compostezza, mentre il pubblico li applaude con un compassato e sobrio battere di mani, che dissimula un affetto e un'ammirazione assoluti, non manifestati però in modo rumoroso e vociante: nessun segnale, se non negli indumenti di alcuni fan, lascerebbe pensare che il pubblico non sia quello di un concerto di musica classica o perlomeno di avanguardia colta.

Peraltro, nella formazione a tre il gruppo esprime perfettamente il prevalere della logica e della razionalità rispetto agli incubi, al caos e al tormento interiore che talora contrassegna le composizioni del migliore Hammill solista. Razionalità che si traduce anche in un minimalismo essenziale: ombre e luci con effetti geometrici al posto di impianti sontuosi, assenza di proiezioni o maxischermi, rinuncia a ulteriori sessionmen. Solo tanta onestà e consapevolezza: per loro occorrerebbe creare quel "segretariato terreno dell’esattezza e dell’anima" di cui parlava Robert Musil nel romanzo L'uomo senza qualità (Der Mann ohne Eigenschaften).

Il primo brano, presentato dal poliglotta Hammill (conoscitore anche di francese, tedesco, latino e greco) in eccellente italiano, conferma questa tesi: si tratta di “Interference Patterns”, tratto dal terzultimo album, Trisector del 2008. Viene suonato con geometrica precisione e micidiale scansione ritmica – peraltro lo stesso titolo dell'album si riferisce a un problema della geometria greca pressoché irrisolvibile: come costruire un nuovo angolo uguale a un terzo di un angolo già esistente, oppure dividere un angolo in tre parti uguali, usando solo riga e compasso. A nostro parere, questo problema è una metafora del lavoro di un trio di musicisti che cercano di immaginare come continuare a suonare nonostante la dipartita di un quarto (ed essenziale) membro, ossia David Jackson. L’intensità espressiva supera la glaciale freddezza del disco in studio, in una serrata dialettica tra le tastiere, fino a toccare dissonanze in bilico tra il jazz (le prime battute ricordano il “Blue Rondo à la Turk” di Dave Brubeck) e le sperimentazioni del minimalismo del secondo Novecento (piuttosto Steve Reich che Philip Glass).

Il testo si incentra sul rapporto tra le apparenti scelte umane e la fisica contemporanea. È un vero e proprio poemetto filosofico-scientifico sulla fisica quantistica, la teoria della relatività e il loro influsso sulle azioni dell’uomo e sulla nostra concezione della realtà. Come recita la seconda strofa, “Everything's formed from particles,/all that you see is a construction of waves./Hold onto both thoughts,/under general relativity/the cradle connected to the grave” (Ogni cosa è formata da particelle,/tutto ciò che si vede è una costruzione di onde/rimani aggrappato a entrambi i pensieri,/sotto la relatività generale/la culla si connette con la tomba).

Qui viene sostanzialmente evocato il cosiddetto principio di complementarità della meccanica quantistica, formulato da Niels Bohr nel 1927, secondo il quale i fotoni, le particelle quantiche e tutte le altre particelle elementari producono fenomeni di duplice tipo, corpuscolare e ondulatorio, con una contraddizione soltanto apparente, dato che i due aspetti non si manifestano mai contemporaneamente nella descrizione di uno stesso esperimento, ma appaiono come complementari l’uno rispetto all’altro. Negli esperimenti in cui prevalgono i caratteri ondulatori delle particelle quelli corpuscolari sono trascurabili e viceversa.

Nel testo del brano incontriamo poi altri “personaggi” del mondo della fisica contemporanea (l’etere luminoso, l’esperimento di Michelson e Morley, da cui partì Albert Einstein per la formulazione della teoria della relatività ristretta nel 1905, e l’esperimento della goccia d’olio di Robert Millikan). Peraltro, anche se “solo un pazzo penserebbe che noi siamo pronti ad affrontare con sicurezza tutto ciò verso cui il nostro futuro si dirige” (“Only a fool would think us/ready to face with certainty/all that our future's heading for”), la conclusione esprime un certo ottimismo verso l’indagine scientifica: “we'll find out what is below/the interference patterns" (noi scopriremo che cosa si nasconde sotto le figure di interferenza).

Musicalmente il brano passa da vibrazioni jazz e quasi di ingenuo surf rock a tessiture prog diabolicamente complesse: tecnicamente, alterna due diverse indicazioni di tempo, che suonate l'una contro l'altra producono un terzo riff "fantasma".

Sempre da Trisector proviene il brano successivo, "Over the Hill": il brano comincia con delicati arpeggi, per passare poi a una vera "trisezione" tra le tastiere e la batteria, fino a suoni jazz, con gran lavoro strumentale. La lunghezza del brano (circa 12 minuti) ci riporta indietro ai tempi delle grandi suites progressive. L'organo di Banton, suonato con ausilii ritmici, il piano di Hammill e le percussioni di Evans dialogano a vicenda riservandosi ciascuno lo spazio musicale che gli è proprio. Si può quasi dire che qui la band compia una sorta di ascesa verso una vetta di "caos ispirato". Ispirazione che si trova anche nei testi, che scandagliano il tema dell'invecchiamento e dell'obsolescenza: Let's close the book on history and keep it safe and sound./While we've been moving forward to our goals/we have done as we have told,/so the story's closed behind us/and the countdown comes in backwards,/that much was always clear,/so when it reaches zero our heroes disappear (Chiudiamo il libro della storia e manteniamolo sano e salvo./Mentre siamo andati avanti verso i nostri obiettivi/abbiamo fatto quello che abbiamo detto,/così la storia si è chiusa dietro di noi/e il conto alla rovescia arriva al contrario,/questo è sempre stato chiaro,/così quando raggiunge lo zero i nostri eroi scompaiono.).

Sorprendentemente, il pezzo successivo proviene dal repertorio del primo Hammill solista, ossia da quel capolavoro che è The Silent Corner and the Empty Stage: si tratta di "A Louse is not a Home", originariamente concepita come canzone da inserire nell'album (mai uscito) che avrebbe dovuto seguire immediatamente Pawn Hearts. Nei dodici minuti e mezzo di "Gothic horror tropes, and philosophical 'I'-hunting" (Dan Coffey), Hammill distilla una profonda narrazione dove la ricerca di sé e l'alienazione da sé vengono declinate con il suo baritono cupo e "wagneriano" sopra accordi di piano altrettanto cupi e pesantemente suonati.

Dopo l'introduzione solista, la batteria e le tastiere, quasi lamentose, si uniscono per la seconda strofa e il volume si alza drammaticamente, anche se con un temporaneo (e tremendamente efficace) pianissimo alla fine della strofa. L'effetto allitterativo all'inizio della terza strofa ("there is a lofty lonely Lohengrenic castle in the clouds") ci trasporta verso vette decisamente operistiche, dove lo spleen e la tragedia emergono con versi che richiamano esplicitamente e chiaramente quelli di Charles Baudelaire: I draw my murky meanings there/but seven years' dark luck is just around the corner/and in the shadows lurks the spectre of Despair (Io vi traggo i miei torbidi significati/ma la fortuna oscura di sette anni è proprio dietro l'angolo/e nell'ombra si annida lo spettro della Disperazione; cfr. "Spleen IV": Et de longs corbillards, sans tambour ni musique,/Défilent lentement dans mon âme; l’Espoir,/Vaincu, pleure et l’Angoisse atroce, despotique,/Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir; E lunghi funerali, senza tamburi né musica,/sfilano lentamente nella mia anima;/vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica,/pianta sul mio cranio chinato il suo vessillo nero).

Segue una più tranquilla e contrastante sequenza, dove il verso "A cracked mirror 'mid the drapes of the landing" è accompagnato da una splendida melodia armonica - che precede una delicata sezione di piano. Poi arriva una sequenza guidata dalla pedaliera di basso dell'organo, quasi comica, prima che ritorni la melodia portante prima quasi teneramente, poi martellata da Hammill e dalla band.  La canzone si dirige verso la sua fine con un lungo accordo di tastiera che simula un coro, mentre Hammill ripete "I?... I?... I?...", dopo i versi  "sometimes I think I'll disappear, sometimes I think", come una domanda senza fine su chi e che cosa e dove sia: il pronome "io" viene ripetuto in modo interrogativo e dubitativo, per esprimere una dispersione fratturata e dematerializzata della coscienza, in un empito di dispersione psichica anticartesiana. Come ha scritto una raffinata esegeta dei testi hammilliani, la tedesca Dagmar Klein, "These two worlds, the bright and lofty conscious on the one side and the murky and superstitious dark side on the other, are enmeshed with each other via the mirror, as it splits the person looking into it into image and mirror image, the act of reflection itself creating the duality expressed here".

I tre riprendono ancora una canzone dal repertorio di Trisector, "All That Before". Hammill passa dal pianoforte alla chitarra, seppur con bassa amplificazione; l’inizio del brano è quasi hard rock, ma con uso decisamente in stile progressive delle tastiere. È notevole il lavoro dell’infaticabile Guy Evans, finché il brano non diventa quasi uno strumentale con un duetto ritmico tra chitarra e batteria. Infine il librarsi della voce accompagnata dalla tastiera segna una conclusione più in linea con lo spirito di questi ultimi anni.

Il testo, prendendo spunto dalla perdita di un paio di occhiali da vista spex (come doveva essere il titolo originario), riguarda il problema della memoria che si attenua con il passare dell’età, ma anche l’inesorabile oblio che riguarda di generazione in generazione l’intera specie umana e le sue azioni  (“I’m beginning to see everyhting we've been /is going to be forgotten” – Sto cominciando a notare che ogni cosa che siamo stati verrà progressivamente dimenticata). Anche se in una canzone dedicata a Primo Levi, “Primo on the Parapet”, Hammill ammoniva sull’esigenza di imparare a non dimenticare (“we must learn not to forget”).

La successiva canzone, "Alfa Berlina", proviene invece dal disco Do not Disturb, del 2016: il titolo rimanda a una circostanza autobiografica della band: all'inizio degli anni '70, durante il tour per promuovere l'album Pawn Hearts, i membri del gruppo vennero scarrozzati in tutta l'Italia dal promoter alla guida di un'Alfa Romeo spinta ad alta velocità. Ma quell'esperienza consente oggi a Hammill di rievocare i tempi della giovinezza, conferendo loro quasi un significato cosmico e un'aura onirica e mistica: I saw a wolf high on the mountain pass,/the stars were tumbling end to end./I knew I’d never feel as free as this again../The sea below us like a looking-glass,/we drifted through the hair-pin bends/in the Alfa Berlina (Ho visto un lupo sul passo della montagna,/le stelle cadevano da un capo all'altro./Sapevo che non mi sarei mai più sentito così libero./Il mare sotto di noi come uno specchio,/andavamo alla deriva tra le curve a gomito/nell'Alfa Berlina).

Segue la più breve "Go", dallo stesso disco, una sorta di inno al Sé passato e futuro, con sonorità che ammiccano al vecchio album Still Life.

Si ritorna ai vecchi album con "La Rossa", da Still Life: la dedicataria della canzone è probabilmente Alice, una donna a suo tempo legata sentimentalmente a Hammill, il quale però sfrutta efficacemente il personaggio della Red Queen di Through the Looking-Glass di Lewis Carroll, antagonista dell'Alice della fiaba, per identificarla con l'Alice reale con la quale ebbe un rapporto travagliato, in un insinuante gioco di specchi. La musica diventa qui più decisamente hard, con lo spirito progressive che si esalta nelle parti soliste dei tre musicisti.

Poi improvvisamente e inequivocabilmente, con uno dei riff più celebri e martellanti della storia del progressive, reso famoso dal doppio sassofono di David Jackson (qui sostituito dalle tastiere di Banton), risuonano le note introduttive di "The Sleepwalkers", dall'album Godbluff. Batteria (con piatti delicati e potenti insieme) e tastiere producono una scossa dirompente, mentre il testo, dalle tinte gotiche e surreali, dipinge danzatori della notte che avanzano, pieni di implacabile energia verso l’oscurità, con gli occhi non offuscati dalla luna. Hammill stesso si siede alle tastiere e duetta con Banton. E poi conclude ispirato con voce finale quasi da coro. La canzone (che ha ispirato il titolo del romanzo dei Wu Ming, L'armata dei sonnambuli) comincia come un'esplorazione interna di stati onirici, adottando il punto di vista di un sonnambulo, e passando quasi impercettibilmente dal sonno reale a una sorta di critica filosofica dell'umanità come composta da sonnambuli, persone che dormono pur sembrando sveglie. E in ogni caso, il tempo umano non basta per esplorare né il mondo dei sogni né i segreti della nostra mente: If all is lost none is known/and how could we lose what we've never owned?/Oh, I'd search out every knowledge that I could find,/unravel all the mysteries of mind,/if I only had time,/if I only had time,/but soon my time is ended (Se tutto è perduto nessuno è conosciuto/e come potremmo perdere ciò che non abbiamo mai posseduto?/Oh, cercherei ogni conoscenza che io possa trovare,/svelerei tutti i misteri della mente,/se solo avessi tempo,/se solo avessi tempo,/ma presto il mio tempo sarà finito).

Sempre da Do not Disturb, il gruppo ci fa ascoltare "Room 1210", una canzone che investiga lo spazio di confine tra vita e morte, questa volta dal punto di vista di un ospite di un hotel che sembra quasi desideroso di comunicare con spiriti e fantasmi, il tutto con una punta di smaliziata ironia e con toni ricercatamente lugubri.

Il concerto si conclude con un'epica canzone, "Man-Erg", dal leggendario disco Pawn Hearts. Il gruppo lo esegue in modo impeccabile, con la voce di Hammill che vibra ancora potente, la batteria suonata come se fossero le tastiere e le tastiere suonate come se fossero la batteria. Nel testo viene descritta un’architettura quasi-freudiana dell’Io, composto da varie stanze, ciascuna delle quali è abitata da un’entità che poi l’Ego contempla dall’esterno: prima un assassino ("A killer lives inside me"), poi gli angeli e infine l’Io stesso (l’Es, il Super-Io e l’Io).

Ma c'è ancora tempo per un bis: è la struggente “Refugees” (tratta dal remoto album vandergraaffiano The Least We Can Do is Wave to Each Other): la condizione umana come quella di perenni profughi è ben simboleggiata in versi come i seguenti: “We're refugees, carrying all we own/in brown bags, tied up with string” ("Siamo rifugiati, portiamo tutto quello che abbiamo in borse marroni, legate con lo spago"). Il futuro qui appare comunque più roseo, con l’allusione a un Ovest dove i colori cangiano dal grigio all’oro (“where the colours turn from grey to gold”). Ma si tratta comunque di speranze che tengono conto della fragilità della condizione umana, dove si passa dal nulla (nothing to do nor to say) al nessun luogo (nowhere to stay) al semplice “ora” (now we are alone), come una metafora del passaggio da un passato sicuro a un futuro incerto e indeterminato.

Pubblicato in: 
GN28 Anno XIV 14 maggio 2022
Scheda
Titolo completo: 

Fondazione Musica per Roma
Van Der Graaf Generator in concerto
Lunedì 3 maggio 2022
Auditorium Parco della Musica - Sala Sinopoli, ore 21,00

Peter Hammill: piano, tastiere, chitarre e voce
Hugh Banton: organo, tastiere e bass pedals
Guy Evans: batteria.

SETLIST  
Interference Patterns (da Trisector)
Over the Hill (da Trisector)
A Louse Is Not a Home (Peter Hammill's song) (da The Silent Corner and the Empty Stage)
All That Before (da Trisector)
Alfa Berlina (da Do Not Disturb)
Go (da Do Not Disturb)
La Rossa (da Still Life)
The Sleepwalkers (da Godbluff)
Room 1210 (da Do Not Disturb)
Man-Erg (da Pawn Hearts)
Encore:
Refugees ((da The Least We Can Do is Wave to Each Other)