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Crimson ProjeKCt. Il Parco della Musica si tinge di cremisi
Il 1° aprile 2014 la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma ha fatto vibrare le sue preziosissime lamellature, ottenute con pannelli in legno di ciliegio americano e mattoncini sabbiati, di vibrazioni insolite: quelle prodotte da un ensemble di sei musicisti che formano i cosiddetti Crimson ProjeKCt. Ossia, la giustapposizione degli Stick Men di Tony Levin (Chapman Stick, basso, chitarra e voce), Pat Mastelotto (percussioni e voce) e Markus Reuter (touch-style guitar), e dell’Adrian Belew Power Trio, con Julie Slick al basso e Tobias Ralph alle percussioni.
Sarebbe ingenuo e riduttivo pensare, come pure di primo acchito potrebbe venire in mente a molti appassionati, che si tratti di una versione dei King Crimson senza Robert Fripp, il grande fondatore e mastermind del gruppo storico di avanguardia rock più celebre del mondo. Usare l'espressione "avanguardia rock" non è casuale: pochi altri gruppi sono riusciti a coniugare con tanta maestria e sapienza compositiva - raggiungendo al contempo una relativa "popolarità" - stilemi desunti dal rock, dalla musica cosiddetta "colta" (o "forte", per mutuare l'espressione cara a Quirino Principe) e da quella delle avanguardie storiche del Novecento. Non a caso nessuno ha mai osato derubricare la musica del Re Cremisi a fenomeno commerciale o di mero consumo. E non a caso, quando i detrattori del rock in quanto musica "extracolta" devono citare esempi del presunto degrado musicale che tale tipo di musica comporterebbe, non menzionano mai i King Crimson: o perché semplicemente li ignorano, o perché la loro musica costituirebbe una confutazione performativa dei loro assunti e quindi, se pure ne hanno una qualche conoscenza, volutamente non li prendono in considerazione (nei casi invece in cui li considerino, viene di solito tributato loro il massimo rispetto e vengono presi assolutamente sul serio). È probabile che lo stesso Theodor W. Adorno, se fosse vissuto qualche anno in più e gli fosse capitato di ascoltare, ad es., Starless and Bible Black, avrebbe avuto qualche perplessità nel ricondurre anche questo tipo di musica alla decadenza del gusto indotta dall'industria culturale (di cui parla ad esempio nel saggio Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell'ascolto).
I princìpi a cui questa formazione crimsoniana, quasi un side project (come si evince dal nome stesso, Crimson ProjeKCt, dove la sigla KC scritta in maiuscolo allude grafematicamente alla Ur-band), si rifà sono comunque quelli teorizzati dallo stesso Fripp allorché oltre trent’anni fa egli scrisse che l'idea organizzativa del futuro sarebbe stata un’unità “piccola, mobile e intelligente”, dove l’intelligenza è definita come la capacità di percepire l’esattezza, mentre la mobilità è la capacità di agire in questo orizzonte percettivo; la piccolezza, viceversa è la necessaria condizione per quest’azione in un mondo in contrazione.
In ogni caso, la stessa formula del doppio trio fu sperimentata dai King Crimson dal 1994 al 1997 con indubbio successo, e non va trascurato che lo stesso Fripp, che peraltro si sta accingendo a ripresentare i King Crimson “autentici” con una formazione nuova di zecca, ha avallato e benedetto l’operazione. Operazione che conduce i magnifici sei soprattutto lungo le strade ritmiche degli anni ’80, non senza ammiccare a quelle sperimentali degli anni ’70, dense di musica classica del ‘900, e a quelle metalliche e nervose degli anni ’90.
A titolo puramente informativo e a costo di qualche semplificazione, qui vorremmo ricordare che i King Crimson hanno attraversato almeno quattro fasi: 1) il periodo più emblematicamente "progressive", ossia quello dei primi quattro album, da In the Court of the Crimson King del 1969 fino ad Islands del 1971, in cui la musica della band appare molto variegata, a volte molto tranquilla e con arrangiamenti magniloquenti e barocchi. Sono evidentissimi gli influssi della musica classica, del jazz e del rock psichedelico. 2) Il periodo da Larks' Tongues in Aspic del 1973 a Red del 1974, dove spiccano le influenze di Stravinskij, Bartók, del free jazz, dell'hard rock e una forte tendenza verso estese improvvisazioni. 3) gli album che vanno da Discipline (1981) a Three of a Perfect Pair (1984), dove è particolarmente evidente l'influenza della musica minimalista e della new wave, con un suono più scarno e con un privilegiamento della dimensione ritmica. 4) La fase degli anni '90 e 2000, da Thrak del 1995 a The Power to Believe del 2013, caratterizzata dal doppio trio e da sonorità definibili come prog metal, con una continuazione del discorso cominciato con la seconda e terza fase.
La Sala Sinopoli, a nostro parere location quasi ideale per un concerto del genere (benché alcuni appassionati l’abbiano trovata un po' asettica), con una resa sonora eccezionale, seppure forse calibrata per generi diversi dal rock, gremitissima in tutti gli ordini di posti, freme già dalle 20,30 per l’attesa del concerto.
Finalmente alle 21,15, dopo una breve e commovente introduzione di Guido Bellachioma, che commemora Francesco Di Giacomo, il compianto cantante del Banco del Mutuo Soccorso, il sestetto fa la sua comparsa, gradualmente. Il primo a presentarsi è Markus Reuter, che con una serie di soundscapes sembra quasi far rivivere l’atmosfera straniante creata da quelle particolari chitarre trattate note come Frippertronics, dal nome stesso del leggendario fondatore del Re Cremisi.
Si dislocano poi con accorto posizionamento spaziale sulla destra il Power Trio di Adrian Belew e sulla sinistra gli Stick Men di Tony Levin. Le “danze” vengono aperte da un tris di brani dalle sonorità potentemente metalliche, tutti tratti da Thrak, l’album della svolta power metal del 1995, ossia "B’Boom", "Thrak" e "Dinosaur": eccellono i due batteristi, che tra un virtuosismo e l’altro rivaleggiano in una sana competizione, a colpi di sincopi e di tempi dispari, mostrando l’affiatamento straordinario delle due semi-band.
Ma ben presto emerge il vero immenso gigante della serata, sia fisicamente, sia musicalmente: quel Tony Levin che, infaticabile e inesausto, a onta dei suoi 67 anni, domina la scena con sovrana e olimpica perizia strumentale, passando dal suo strumento preferito, il Chapman Stick, a vari bassi e chitarre, tutti suonati con padronanza assoluta e sovrana; senza dimenticare che nella seconda parte del concerto annuncia e commenta i brani parlando in italiano, dato che i suoi lunghi soggiorni in Italia come sessionman gli hanno consentito di acquisire una buona competenza nella nostra lingua. Lo asseconda dall’altra parte Adrian Belew, il quale a detta di molti fu il vero responsabile della svolta new wave del 1981, quando con Discipline i King Crimson sembravano troppo simili a una versione progressive dei Talking Heads (di cui Belew faceva pure parte).
Ma anche Markus Reuter e Julie Stick non mancano di fare il loro dovere, dando l’impressione di trovarci di fronte a un ensemble formato da due band ispirate a un parallelismo non euclideo, dove le rette hanno all’infinito un punto di intersezione comune, come si esprime uno dei più grandi esperti di questi problemi, Imre Toth.
E la parte centrale del concerto è costituita proprio dai brani degli anni ’80, da "Frame By Frame" (brano costruito con un particolare tecnica, dove una prima chitarra intona melodie su due ottave, sesta e settima, mentre la seconda sulla sola settima, così da indurre l'ascoltatore a pensare che vi sia una specie di dilazione come se la seconda chitarra eseguisse il brano in ritardo) a "Three Of A Perfect Pair": i brani sono cesellati magistralmente con fraseggi levigati che rimandano dalle chitarre al Chapman Stick. Esemplare poi la sublime "Matte Kudasai", che sembra per certi versi riconnetterli al progressive delle origini. Grandiosa appare pure "Larks’ Tongues In Aspic part II", con bruschi cambiamenti di tempo tra un 4/4 e un 5/4, e che, per le palesi citazioni dal compositore ungherese, potrebbe chiamarsi "Quartetto n. 4 di Béla Bartók per Frippetronics e Chapman Stick", mentre in una pur commovente "One Time" si fa sentire l’assenza delle tastiere. Sorprendente poi la cover di The Firebird di Igor Stravinskij, dove Levin mostra con abilissima maestria strumentale come sia possibile rileggere un grande classico del Novecento senza scadere nel kitsch o nell’artificioso.
Per il bis, Belew si esibisce in un lacerto per sola chitarra della leggendaria melodia di "The Court Of The Crimson King", cantata coralmente da tutto il pubblico, ma in modo composto e quasi sommesso. Certo, avrebbero potuto fare qualcosa di più per rendere omaggio a un brano tratto da un disco ormai leggendario (compresa la sua copertina, un artwork di Barry Godber, che ha avuto perfino l'onore di essere citato da Umberto Eco a p. 437 della sua Storia della bruttezza), che però evidentemente non rientrava nelle corde di Belew e soci, appartenendo alla fase aurorale del Re Cremisi.
Due ulteriori encores, "Elephant Talk" e "Thela Hun Ginjeet" (anagramma per "Heat in the Jungle", con un testo che focalizza gli aspetti più inquietanti della violenza metropolitana) , suggellano il concerto come meglio non si potrebbe, con un pubblico tanto composto e ordinato, quanto entusiasta e osannante.
Abbiamo anche sentito di aspettative deluse, soprattutto di nostalgici dei King Crimson primissima maniera: ma sarebbe come andare ad ascoltare La sagra della primavera o lo stesso Uccello di fuoco di Stravinskij e lamentarsi perché non suona come la Quarta sinfonia di Brahms. O come se un amante delle sonorità di Mozart e delle prime due sinfonie di Beethoven fosse andato ad ascoltare gli ultimi quartetti beethoveniani e non vi avesse trovato gli stilemi propri del classicismo viennese.
Certo, chi avrebbe voluto anche brani dei King Crimson anteriori a Larks' Tongues in Aspic è rimasto deluso, ma si sapeva che il repertorio sarebbe stato quello che poi è stato effettivamente eseguito in modo perfetto, con grande mestiere e una buone dose di passione e sentimento.