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Tuxedomoon. L'intervallo del diavolo
L’8 luglio 2011, nell’ambito dell’ormai consueta manifestazione “Roma incontra il mondo”, diventata “maggiorenne” con la diciottesima edizione, sono tornati ad esibirsi sul palco di Villa Ada i Tuxedomoon, una delle più sofisticate band di art rock, nata alla fine degli anni ’70 e ancora attiva. È la seconda tappa di un mini-tour che li ha già visti a Firenze e che nel fine settimana li vede anche ad Alberobello, in occasione dell'uscita del box celebrativo composto da un CD e un DVD, Unearthed, pubblicato in una serie limitata.
La formazione comprendeva il trio “fondatore”, ossia Steven Brown (voce, piano, tastiere, sax e clarinetto), Blaine L. Reininger (voce, violino, viola e tastiere), e Peter Principle (basso e programmazione). Ad essi si sono affiancati Luc Van Lieshout (tromba, flicorno e armonica) e Bruce Geduldig (che ha curato gli effetti speciali e i live visuals).
Steven Brown e Blaine L. Reininger appartengono a quella categoria di geniali artisti da culto, che, se avessero voluto, con il loro talento compositivo, avrebbero potuto fare soldi a palate cedendo alle lusinghe dell’industria culturale e dello show business con le connesse logiche di mercato. Ma analogamente ad altri talentosi cult artists, quali Peter Hammill, David Tibet, Robert Wyatt, Michael Cashmore, Diamanda Galás o Efrim Menuck, Brown & Reininger hanno preferito perseguire i loro fini e sviluppare la loro ricerca compositiva senza mai accettare compromessi che potessero snaturare il senso più profondo della loro poetica e del loro divenire artistico, fedeli più che mai a un innato e radicale Kunstwollen (intenzionalità artistica).
La loro creatività si è sempre sposata con un alto tasso di intellettualismo, che ha fatto sì che alcuni accusassero il gruppo di cerebralità e sofisticazione fini a sé stesse. In realtà, come una volta ha dichiarato Robert Fripp, il geniale fondatore dei King Crimson, nel rock è possibile usare la testa, come si usano i piedi: e questo compito i Tuxedomoon, come il Re Cremisi, hanno sempre assolto con infinita perizia strumentale, onestà intellettuale e senso intimo della sperimentazione e della tradizione riletta con nuovi moduli espressivi.
Del resto, anche definire la formazione di Brown & Reininger secondo una classificazione per generi risulta alquanto arduo: nati nel clima del cosiddetto post punk nella scena californiana di San Francisco (dove i due leader erano studenti del laboratorio di musica elettronica del San Francisco City College), i Tuxedomoon nei primi anni ’80 si trasferirono in Europa, prediligendo soprattutto l’Olanda e l’Italia, dove la loro versatile capacità di polistrumentisti venne particolarmente apprezzata, creando un ristretto, e fedele, numero di aficionados e sconvolgendo gli schemi classificatori della critica musicale.
Inizialmente, nei loro primi lavori erano capaci di indulgere a sonorità chiaramente punk, quasi devastanti, alternandole con una sperimentazione da avanguardia colta e prediligendo le dissonanze di ascendenza mitteleuropea, non senza strizzare l’occhio, nelle loro performances di ieri e di oggi, al cabaret di matrice espressionista.
L’uso sempre più marcato dei sintetizzatori, degli archi e del sassofono porta il gruppo a virare verso un territorio assolutamente di frontiera: nella produzione degli anni ’80 e ’90 si scorgono influssi disparatissimi, rielaborati con magistrale tecnica esecutiva: dal jazz fusion che ricorda i Soft Machine, al glam rock dei Roxy Music; dal jazz elettrico di Miles Davis alla psichedelia dei primi Pink Floyd e degli Electric Prunes, dalle sonorità sperimentali di certi King Crimson ai toni cupi e new wave dei Joy Division e dei Bauhaus, dall’elettronica degli Ultravox o dei gruppi del Krautrock tedesco alla musica etnica; dal folk scozzese fino alla canzone d’autore francese, britannica e italiana (memorabile il disco in cui Brown reinterpreta alcune canzoni di Luigi Tenco); non senza evidenti agganci con la musica colta europea a cavallo tra ‘800 e ‘900, esemplificata da due dischi a nome di Brown & Reininger, ossia Croatian Variations (dove si avverte anche l’influsso della musica slava dell’Ottocento, da Modest Musorgskij ad Antonin Dvořák) e 1890-1990: One Hundred Years Of Music (registrato live a Lisbona, dove è più pronunciata l’influenza di Sergej Rachmanivov, Maurice Ravel e Manuel De Falla, ma con ammiccamenti al minimalismo americano).
In qualche maniera, a nostro modesto parere i Tuxedomoon sono uno dei gruppi che più di molti altri meritano l’etichetta di progressive: dove ovviamente l’aggettivo progressive non va preso nel senso limitante e angusto con cui taluni spesso l’hanno usato, per designare uno stile ampolloso e barocco di certo rock della prima metà degli anni ’70 (in particolare le opere più magniloquenti degli Yes e degli Emerson, Lake & Palmer). È chiaro che, se visto in quest’ottica, a cui si contrapposero intenzionalmente il punk e la new wave, i Tuxedomoon, che dalla new wave hanno preso le mosse, non potrebbero, se non per usurpazione, fregiarsi dell’attributo di progressive band.
Tuttavia, se si intende il progressive in senso lato, come il genere del rock che oltrepassa consapevolmente i limiti dei generi e cerca ecletticamente di allargare i confini dello sperimentabile, senza dubbio i Tuxedomoon rappresentano un’esperienza autenticamente progressive. Anzi, come i King Crimson hanno potuto sapientemente incorporare nei loro album degli anni ’80, da Discipline a Three of a Perfect Pair, tutte le sonorità della new wave che contestavano le degenerazioni del progressive, così i Tuxedomoon, nei dischi degli stessi anni, da Desire a The Ghost Sonata, hanno abilmente scardinato la ripetitività ossessiva delle sonorità post punk per mutuare tutti gli stilemi e le raffinatezze espressive del progressive più d’avanguardia, in modo da creare un effetto straniante nell’ascoltatore che si stupisce per un passaggio inatteso.
E non è un caso che l’influsso maggiore dei Tuxedomoon si sia avvertito nel post rock, in band come i Mogwai (inopinatamente nello stesso giorno a Roma in un concerto dal vivo) o i Tortoise (il cui batterista, John McEntire, ha collaborato al disco dei Tuxedomoon Cabin in the Sky); ma si nota anche in altre formazioni, ad es. nel folk progressivo-psichedelico dei Current 93 o nel neoprogressive dei Porcupine Tree, e perfino in alcune tendenze dell’industrial, a partire dai Throbbling Gristle.
Ma veniamo al concerto. Alle 22,30, dopo un’attesa di una mezz’ora in cui il pubblico seraficamente sorseggiava bicchieri di birra, compaiono i cinque musicisti: l’abbrivo è folgorante. Il sax di Brown e la viola elettrica di Reininger danno vita a uno stupendo pezzo strumentale, teso e nervoso, su cui i tocchi di basso di Principle intervengono con efficacia. Si passa poi ad “Allemande bleue”, una composizione reminiscente di melodie barocche e bachiane, con accordi lenti e ossessivi di basso e un violino dalle sonorità tzigane, ma con un testo che rimanda al tema della follia ("Come along with me, boy/We gone down crazy land” – Vieni con me, ragazzo/Andiamo giù verso la terra della follia).
Una brusca virata strumentale introduce poi la frenetica “Courante marocaine”, dove correnti di jazz elettrico e ossessivo (non immemori dell’ultimo Miles Davis e apparentate sia a un certo John Zorn, sia ad esperienze come quelle di Daevid Allen e dei Gong) si combinano con sonorità nordafricane, creando un effetto di assoluto straniamento, complice anche un cantato fatto di gorgheggi e modulazioni vocali, quasi a simulare le nenie dei muezzin accompagnate dai vagiti del sassofono.
Segue poi, dall’ultimo album in studio, Vapour Trails, “Muchos colores”, pezzo di un soffuso e delicato pop, cantato in spagnolo, per effetto dei loro viaggi tra il Mediterraneo e il Messico, e con una splendida citazione dal grande scrittore spagnolo Manuel Vázquez Montalbán: “Se puede ver parte de la verdad y no reconocerla. Pero es imposible contemplar el mal y no reconocerlo” (“Si può vedere una parte della verità e non riconoscerla. Ma è impossibile vedere il male e non riconoscerlo”).
Dopo un intermezzo di animazioni visive e di recitativo ("Boxman - mr. Niles"), il gruppo attacca un classico della sua produzione, “Everything You Want”, dai toni decisamente darkwave, seguita da “Still Small Voice”, una canzone di Blaine Reininger con sonorità eteree, scandite dal clarinetto di Brown (brano che richiama curiosamente un'omonima canzone di Perry Como).
Con lo strumentale “Fifth Column” (da Half Mute) si tocca uno dei vertici del concerto, con un sopraffino assolo di sassofono. Segue un excerpt da "Nazca": il titolo del brano si riferisce verosimilmente al sito archeologico del deserto di Nazca, in Perù, dove una misteriosa civiltà preincaica aveva tracciato geoglifi, ossia linee stilizzate ottenute con procedimenti sorprendentemente evoluti, utilizzate per rappresentare i profili di animali totemici; il sassofono stralunato di Brown duetta splendidamente con il violino di Reininger, mentre le tastiere di Principle offrono un sottofondo gotico ed oscuro, potentemente evocativo degli antichi simboli primordiali della cultura precolombiana.
Ma è il brano successivo a costituire la vera gemma sperimentale del concerto: si tratta di “Tritone (Musica Diablo)”: è un pezzo che fa uso appunto del tritono, il cosiddetto "diabolus in musica”, ben noto ai virtuosi italiani del violino, come Giuseppe Tartini (autore della celebre composizione Il trillo del diavolo) o Niccolò Paganini. Si tratta, da un punto di vista tecnico, di un intervallo di quarta aumentata (o di quinta diminuita). È interessante notare che il tritono coincide con la metà esatta di un’ottava, e se viene ripetuto ciclicamente si genera il cosiddetto paradosso del tritono, per cui l'orecchio non è in grado di capire se l’intervallo sia ascendente o discendente. Nella scala diatonica l’intervallo genera delle dissonanze, cosicché già nel medioevo veniva identificato con qualcosa di diabolico. Nella musica ottocentesca venne usato da Ludwig van Beethoven nella Settima Sinfonia e da Franz Liszt (nella Dante Sonata, per suggerire le immagini dell’inferno).
Nella Götterdämmerung di Richard Wagner, l’intervallo di quinta diminuita illustra le scene più violente dei rituali pagani; Camille Saint-Saëns lo ha usato per illustrare la storia degli scheletri viventi nella notte di Halloween nella sua Danse Macabre.
Più di recente lo si può trovare in varie composizioni di Béla Bartók. Molto presente anche nel jazz, fa la sua irruzione nel rock con “Purple Haze” di Jimi Hendrix e nel progressive con “The Devil’s Triangle” tratto da quel capolavoro che è Lizard dei King Crimson (ed è molto presente anche nell’heavy metal, dai Black Sabbath agli Slayer), oltre che con l'inquietante e angosciosa coda di "White Hammer" dei Van Der Graaf, dove il sax di David Jackson e le tastiere di Hugh Banton duettano in progressione ascendente.
Di incredibile suggestione l’accompagnamento dei live visuals, incentrati sull’animazione di alcune figure di un quadro di Hieronymus Bosch che sembrano prendere vita e muoversi in una sorta di sabba mistico.
Con “Blind” torniamo a sonorità più oscure, che ricordano il primo Nick Cave, arricchite da un testo che invita a guardarsi dalle false percezioni e rappresentazioni, che rischiano di deformare la realtà e di farci apparire come se fossimo ciechi. “The more ridiculous you are in this life/The more it's going to pay off later/Learn to see through the lies of your eyes” (Tanto più ridicolo tu sei in questa vita/quanto più dovrai pagare il conto in seguito/Impara a vedere attraverso le menzogne dei tuoi occhi).
Invece, “Time to Lose” è costruita sopra il virtuosismo al violino di Reininger, mentre il testo ammicca niente meno che alla celeberrima proposizione 7.0 del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein: “What a man wants/Can be said/In three words/[…] What we can't talk about/We pass over in silence” (“Ciò che un uomo vuole/può essere detto/In tre parole/[...] Su ciò di cui non si può parlare/si deve tacere”. Originale tedesco: “Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen”).
“Baron Brown” rimanda nel titolo al cognome del frontman della band e costituisce un pezzo d’atmosfera, con un’eccellente fusione di jazz, psichedelia e tinte folk, e con rimandi a storie gotiche, comprensivi di una citazione del conte Dracula. La successiva “The Waltz” suona come un valzer suonato in modo rallentato, con una carica evocativa che sospende in modo onirico la tensione fin qui accumulata, mentre con “Joeboy (the Electronic Ghost)” si ritorna a ritmi new wave e funkeggianti.
Con “Atlantis” siamo di nuovo in presenza di un testo fitto di rimandi, cantato su un tappeto percussivo a metà tra il jazz e il funk, e punteggiato da un sassofono discreto di sapore ambient: “Being set on the idea of getting to Atlantis/You have discovered that the ship of fools/Is making the voyage” (“Ti sei messo in testa/di andare ad Atlantide/e hai scoperto ovviamente/che solo la Nave dei Folli /fa la traversata quest’anno”): si tratta niente meno che di alcuni versi del grande poeta inglese Wystan Hugh Auden, che a loro volta rimandano al mito di Atlantide del Crizia di Platone e all’opera Das Narrenschiff di Sebastian Brant (1494), tradotta e adattata in inglese da Alexander Barclay nel 1509, con il titolo The Ship of Fools (il titolo avrà molta fortuna anche in ambito rock: qui citeremo solo alcune riprese dei Van Der Graaf Generator con splendido testo di Peter Hammill, e di Alexander Hacke, il bassista degli Einstürzende Neubauten), e resa celebre da un quadro di Bosch.
Il concerto volge al termine, con il brano “Dizzy”, uno strumentale ispirato e cesellato con grande maestria da Brown alle tastiere. Ma il pubblico tripudiante invoca i bis, che vengono concessi senza risparmio dal gruppo californiano. Si comincia con “Waterfront Seat”; segue la dirompente “Litebulb Overkill”, dove il violino di Reininger si inerpica su scale ascendenti mentre le tastiere completano efficacemente il brano disegnando sequenze melodiche.
“Some Guys” è l’ultimo brano cantato, mentre la conclusione definitiva è affidata a “Music number two”, un incantevole pezzo classicheggiante tratto da uno dei migliori concept album della band, The Ghost Sonata. An Opera without Words, che nel 1982 ebbe come scenario l’intero paesino di Polverigi, nelle Marche, riscuotendo un notevole successo di critica e di pubblico.
In conclusione, un concerto notevole, che vede una formazione in perfetta forma e che fa auspicare, per un degno festeggiamento del futuro sessantesimo compleanno di Brown e Reininger, altre venues di pari prestigio, come l’Auditorium Parco della Musica.