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Tannhäuser all'Opera di Roma. La concupiscente voluttà della redenzione
Richard Wagner è approdato con il suo Tannhäuser e la tenzone dei cantori sulla Wartburg al Teatro dell’Opera di Roma dopo un quarto di secolo, dal 29 ottobre fino al 6 novembre 2009. La regia è di Filippo Crivelli e le scene di Maurizio Varamo, sul podio Daniel Kawka. Questo articolo è dedicato alla memoria luminosa di mia madre.
Gli intricati rami di un bosco uscito dalla tela di Caspar David Friedrich si aprono lentamente al rintocco dell’Ouverture: un uomo che s’inoltra fra cascate salubri e trasparenti, terminanti in una grotta sul cui sfondo le sembianze di una dea fulva e ricciuta l’accolgono, abbracciandolo fra corpi di canoviana fattura. Un sogno, quello del Tannhäuser cantore, che per un estatico anno l’ha cullato fuori dallo scandire inesorabile del Tempo, in uno spazio dove ninfe e amorini si agitano alla lira d’amore nel balletto dell’Atto I della grande opera romantica di Richard Wagner.
La versione di Parigi del 1861 – salvo alcune eccezioni nella composizione che fino all’ultimo innervò il compositore di possibili evoluzioni – è quella adottata da Filippo Crivelli alla regia e da Daniel Kawka alla direzione musicale. Le fantasmagoriche scene di Maurizio Varamo insieme alle voluttuose coreografie di Gillian Witthingham ci accompagnano nell’antro venusiano.
Tannhäuser (Mario Leonardi) sul Venusberg, la montagna di Venere (Natasha Petrinsky), ha trovato sollazzo a lungo, quello erotico alla Aubrey Beardsley – che si dedicò al mito di Venere e Tannhäuser nell’opera omonima con illustrazioni e testi suoi, lasciata incompiuta nel 1895 –, ma non quello spirituale, rivolto invece ad Elisabeth (qui la magnifica voce di Tina Kieberg che, nonostante l’influenza, ha cantato perfettamente la sua parte), nipote del Langravio Hermann (Christoph Frischesser) nella cui sala si riuniscono i Minnesänger, ovvero i cantori della Turingia ospiti del Langravio. È proprio qui che Elisabeth ha conosciuto Tannhäuser, il più spavaldo e lirico di tutti, colui che nella gara – La tenzone dei cantori sulla Wartburg è l’altro innesto di Wagner nell’opera a cui dà il sottotitolo – si tradisce per superbia inneggiando all’amor profano di Venere.
Amor sacro – Elisabeth – e amor profano – Venere – si scontrano in una contraddizione insanabile nel cuore di Tannhäuser, che vorrebbe riunirle nell’amore che prova per Elisabeth e per cui tenta la redenzione con il pellegrinaggio a Roma, dopo esser sfuggito a morte sicura per l’intercessione della futura santa e martire. L’altra voce che si nota è quella del baritono Otto Katzameier nel ruolo di Wolfram von Eschenbach, soprattutto nelle parti finali in cui commuove in afflato completo con la musica: in particolare nella Ode alla stella della sera “O du, mein holder Abendstern" (Atto III scena II e su cui esiste una bellissima poesia di Poe, Evening Star, 1827 ed ispirata dalla scoperta di Tycho Brahe di una stella luminosissima).
L’Inno a Venere del primo atto ed il Coro dei pellegrini diretti dall’eccelso M.° Andrea Giorgi sembrano condurci sulle vette più sublimi della rielaborazione operistica di stampo wagneriano: sebbene non si identifichino ancora nei Leit-motive che con la tetralogia acquisiranno la piena compattezza e coerenza musicale endogena del Musikdrama. Si tratta ancora qui, di motivi che, ripercorrendo l’opera, ne evidenziano fino alla fine la dicotomica connessione ancestrale tra voluttà e redenzione, i due fils rouges di Tannhäuser.